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'La Spagnola'. Ogni secolo ha il suo virus

Era facilmente trasmissibile, come ora il Coronavirus

La ‘Spagnola’ è stata, un secolo fa, la terribile epidemia che scoppiò nel 1918, negli ultimi mesi della prima guerra mondiale, e proseguì acutissima nel 1919. Nel mondo contagiò un miliardo di persone, uccidendone oltre venti milioni.

Ne sentivo parlare già da bambino, in casa, da mia nonna Teresita, milanese, che con orrore evocava, spaventatissima, i milioni di morti e mi insegnava ad apprezzare i grandi successivi progressi della ricerca scientifica. La ‘Spagnola’ era facilmente trasmissibile, come ora il Coronavirus, attraverso la tosse e gli starnuti o toccandosi dopo strette di mano o contatti col virus che, anche allora, aggrediva le vie respiratorie. All’epoca la popolazione non aveva difese. Si diffuse particolarmente negli eserciti, per i contagi fra i soldati: indebolì fortemente la macchina bellica tedesca, colpì perfino, nella conferenza della pace del 1919, il Presidente USA, Wilson, il principale “regista” di quelle trattative a Versailles.

Ma allora le notizie non si diffondevano facilmente: le soffocava la censura militare, abituata ovunque a nascondere anche le gravi malattie, come la malaria e il colera, che seguivano le guerre. Filippo Turati scrisse che la ‘Spagnola’ colpì ben trecentomila soldati germanici. La gente in Italia definiva ‘febbri’ o ’malattie nuove’ la ’Spagnola‘ che si diffuse in tre ondate: la prima a giugno del 1918, in coincidenza con l’offensiva sul Piave, la seconda a fine ottobre, parallela alla battaglia di Vittorio Veneto. A Maggio ’19 ci furono epidemie circoscritte ad Assisi, Modena, Piacenza, Pisa e a La Spezia, nella base della Marina Militare. Poi in Piemonte e altrove.

A Bologna apparve a giugno in forma lieve, come a Ravenna. A Firenze inizialmente si palesò in forma benigna. Da Luglio si sviluppò in modo più violento e si diffuse nell’esercito e spinse le autorità ad assumere iniziative per combatterla. I più numerosi necrologi sui giornali palesavano ciò che stava avvenendo, anche se l’opinione pubblica seguiva con passione l’avanzata degli Alleati (fra cui l’Italia) che faceva finalmente sperare nella fine vittoriosa della guerra.

A settembre La Nazione rilevava che il male serpeggiava nelle campagne fiorentine. A ottobre la malattia si palesò devastante: chi ne era colpito sentiva febbre alta, mal di gola e alla testa, dolori articolari, ecc., analizzati acutamente dai clinici bolognesi e riportati dal Resto del Carlino dove apparvero pure inserzioni pubblicitarie di prodotti per la disinfezione della bocca o di pozioni contro ‘l’influenza estiva febbre spagnola’. Le prime diffuse misure di prevenzione furono di igiene pubblica, con limitazioni delle libertà individuali, quando la guerra e la sua stessa conclusione moltiplicarono le occasioni di contagio con il ritorno dei soldati.

Particolarmente rigidi furono i divieti nei luoghi più colpiti dall’epidemia, come Fucecchio (Firenze) e anche Milano. Diffusi erano i divieti dei funerali. Quasi ovunque emerse la scarsità del numero dei medici. Le strategie terapeutiche erano spesso improvvisate e poco scientifiche, anche se all’ospedale di Pisa venne molto usata l’aspirina. I morti in Italia si contarono a centinaia di migliaia. La Lombardia fu la regione che ebbe il maggior numero di morti, oltre trentamila, come scrive Eugenia Tognotti. Ma non fu allora chiaro nemmeno come la febbre spagnola si estinse. La tesi ora prevalente è che i sopravvissuti ne divennero immuni.

Antonio Patuelli, La Nazione



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