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Io sacerdote, in fin di vita per il Covid ho ritrovato domenica la mia comunità

La Chiesa e il Covid

«Benvenuta Paolina». Don Franco Amati accoglie la piccola sul sagrato della chiesa. «Attenta, però. Ti manca la mascherina che è obbligatoria per entrare ». E le indica il tavolo sulla soglia del portone centrale dove, accanto ai flaconi con il gel per disinfettare le mani, si trova qualche mascherina chirurgica di riserva. Perché nessuno sia rimandato a casa. «Ciao Brambilla, come sta tua sorella? So che ha avuto problemi », dice al ragazzo che si avvicina all' ingresso. E a Natale consiglia: «Lega bene la bici».

Saluta quasi uno per uno don Franco: a debita distanza e con la mascherina sistemata sotto gli occhiali. A Crescenzago, quartiere popolare nella periferia nord-orientale di Milano dove sfocia la multietnica via Padova, è il giorno della Messa domenicale "ritrovata". Ma anche del parroco "ritrovato". Perché l' energico sacerdote di 70 anni che guida una parrocchia di 10mila anime è stato «fra la vita e la morte», come lui stesso racconta, a causa del coronavirus.

Una settimana di febbre altissima in canonica, poi la corsa al pronto soccorso, quindi un mese e mezzo d' ospedale. «Dove ho trascorso anche la Pasqua - confida -. E forse sono vivo per miracolo».

Ha perso dieci chili, don Franco, ma non la sua forza e la sua voce profonda. «Finalmente torniamo a guardarci negli occhi», esordisce durante la Messa che presiede. Una pausa. «In tanti mi dicono: "Sono contento di rivederla".

Allora io rispondo: "Anch' io sono contento di rivedervi..."». Scherza. E subito aggiunge: «Nella malattia ho sentito ancora più profonda la presenza di Dio, anche grazie alla vostra preghiera ». È Fabiano, informatico e padre di tre figli, che spiega il ringraziamento del sacerdote. «Ogni sera, durante le settimane di blocco totale, ci ritrovavamo in più di cento per il Rosario in streaming. Era per don Franco». Ora Fabiano è uno dei quasi cento volontari impegnati per garantire le Messe a prova di Covid nella parrocchia di Santa Maria Rossa sorta sulle vestigia della storica abbazia del 1100 che ancora è caratterizzata dal carminio dei suoi mattoni. «Ma non siamo un servizio d' ordine - tiene a far sapere -. Svolgiamo il servizio d' accoglienza». Lo rivela anche il badge al collo. «Vogliamo mostrare il volto fraterno della comunità. Siamo ancora in una fase a rischio: perciò il rispetto delle regole è essenziale anche in parrocchia», chiarisce.

Ha voluto che fosse ben preparato ogni momento della Messa "sicura", don Franco. Forse anche per ciò che ha passato. Ridotti a 144 i posti nella chiesa dove, prima della pandemia, si potevano superare le 300 presenze alle due principali celebrazioni domenicali.

«Però abbiamo aggiunto una cinquantina di posti nel circolo che è collegato con un circuito televisivo interno», dice Eugenio, ingegnere durante la settimana. Non servirà. «Era prevedibile - dice don Amati a fine giornata -. La nostra è una parrocchia con molti anziani. Diversi di loro mi hanno telefonato in questi giorni. "Non me la sento di venire. Posso continuare a seguire la Messa in tv?", mi chiedevano. Naturalmente ho detto di sì. Spesso sono anche i figli che ai genitori avanti con gli anni sconsigliano di partecipare».

Eppure la chiesa è quasi piena. Già alla prima Messa, quella delle otto e mezza. Dietro le mascherine i sorrisi di chi riprende a vivere la comunità e ad abbracciare il suo parroco. Accanto al portone una bacheca mostra un Qrcode. «Siccome non possiamo distribuire i foglietti della liturgia, abbiamo creato la versione digitale», avvisa Massimo. E allora capita che il cellulare resti acceso. Quando iniziano le tre Messe della domenica mattina, in chiesa c' è uno spaccato della metropoli ambrosiana: la signora con i guanti giallo- canarino ha accanto un distinto uomo di mezza età d' origine africana. E appena dietro tre donne nate in Sri Lanka. Su ogni panca c' è una persona; al massimo due. A scacchiera. Poi le sedie ben distribuite lungo le navate laterali. E persino sistemate nelle cappelle. Una ospita la famiglia di Fabiano: la moglie Roberta, Luca di 19 anni, Beatrice di 16, Emanuele di 14. Separati fra loro. «Sono accorgimenti necessari - ammette Roberta -. Consideriamoli piccoli sacrifici, non certo fonti di disagio». All' ambone si giunge con i guanti per leggere dal lezionario. Non c' è il coro, vanto della parrocchia. All' organo, tuttavia, continua a sedere Eugenio; distanziate ecco Emanuela che intona i canti e Chiara che dirige l' assemblea.

Sul pavimento di fronte all' altare spiccano alcune strisce di nastro adesivo giallo e nero. Servono ad assicurare quel metro e mezzo fra una persona e l' altra durante la fila che si formerà alla Comunione. «I guanti monouso per toccare il Corpo di Cristo? Sarebbe come preoccuparsi soltanto dell' ordine esteriore...», taglia corto il sacerdote.

La pisside con le ostie resta nel tabernacolo: tirata fuori solo dopo che don Franco ha indossato i guanti e rialzato la mascherina. «Mi raccomando: non inginocchiatevi. Altrimenti non rispetteremmo il distanziamento », informa.

Nessuno si fa problemi.

«L'ostia si riceve sulle mani. Poi si porta alla bocca non di fronte al celebrante ma al lato». Così avviene.

Nelle prime sedie don Franco ha voluto il suo compagno di stanza all' ospedale. «La preghiera e i continui sguardi oltre la finestra sbarrata scandivano le nostre giornate», sussurra Massimo Catalano, ricoverato per oltre un mese sempre a causa del Covid. Abita a Peschiera Borromeo, 15 chilometri in linea d' aria da Crescenzago. È alla Messa del prete-amico con la moglie Tiziana, anche lei contagiata e ormai guarita.

«Per favore tornate anche confessarvi », sprona il parroco prima della benedizione. Quando le porte si chiudono e l' ultimo esce di chiesa, dalla sagrestia compaiono in quindici: è la squadra dell' igienizzazione. Spray con il disinfettante in una mano e lo straccio nell' altra. Si pulisce tutto: dai microfoni al tabernacolo, dalle panche alla balaustra dell' altare. «Anche dal letto di ospedale - mormora Loredana, insegnante di religione che sta sanificando le sedie - il "don" ci è sempre rimasto vicino: con la preghiera e con il cellulare». La chiesa è pronta per la celebrazione successiva. Con don Franco tornato in mezzo alla sua comunità.(Avvenire)



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