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Concistoro, Romero e la via per la santità

di Antonio Tarallo
Credit Foto - Ansa - Oscar Rivera

Famiglia popolosa quella dei Romero. Otto figli. Tutti maschi. Óscar è il secondogenito.  Occhioni neri, espressivi. Viva intelligenza, fin da bambino.  Era il giorno dell’Assunta quando nasce – in un piccolissimo paese del dipartimento di San Miguel, in El Salvador –  Óscar Arnulfo Romero. Era il 15 agosto del 1917. Il cammino religioso arriva presto. A tredici anni entra nel seminario minore di San Miguel, retto dai padri claretiani. Ma la famiglia ha bisogno di lui. E’ troppo povera per avere un figlio sacerdote, e così Romero lascia gli studi e lavora qualche mese nelle miniere d’oro di Potosì, per soli cinquanta centesimi al giorno. All’età di vent’anni il entra nel seminario maggiore di San José de la Montana a San Salvador, retto dai gesuiti. Successivamente gli studi alla Pontificia Università Gregoriana, a Roma: si licenzia in teologia un anno dopo aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale (4 aprile 1942). Ora è “pronto” per ritornare dal suo amato popolo.



Il popolo. Questa è la chiave per comprendere tutta la strada percorsa dal giovane sacerdote salvadoregno. C’è un legame profondo tra Romero e “la gente” di El Salvador.  Rientrato, appunto, nella sua terra, si dedica subito all’attività pastorale. L’11 gennaio 1944 vede Óscar Romero celebrare la prima messa solenne, a Ciudad Barrios. Incomincia un percorso che lo lega sempre di più alla realtà del suo paese: prima segretario della Conferenza Episcopale Salvadoregna e, successivamente, segretario esecutivo del Consiglio Episcopale dell’America Centrale.

Nel 1970 è nominato vescovo ausiliare di monsignor Luis Chavez y Gonzales, a San Salvador, e nel 1974 prende possesso della diocesi di Santiago de Maria, una terra povera, sfruttata e provata dal potere militare che diviene repressivo, violento. E’ lo spirito della Croce che lo accompagna tra la gente bisognosa, sofferente. E’ lo spirito degli ultimi, dei dimenticati, dei poveri, dei non ascoltati. Romero, neo-Francesco: la sua veste talare “sporca” di fango potrebbe ben ricordare le preziose e gemmate vesti di Francesco Bernardone ricoperte di polvere e pioggia. Ma non è solo quello che potrebbe definirsi l’“immaginario romantico” (mi sia passato il termine) ad avvicinare la figura del Vescovo a quella di San Francesco d’Assisi.



C’è un passaggio del diario del sacerdote che potrebbe illuminarci su un aspetto di non poco conto e che, il più delle volte – dando maggiore rilievo alla “politica”, diciamo così; dando eccessivo spazio alla cosiddetta disputa sulla “Teologia della Liberazione”  – è stato messo in secondo piano.  Un aspetto che ha quel “qualcosa” in cui, nel fondo, è possibile intravedere il suo seguire le orme oserei dire francescane.  L’11 marzo 1980, nel diario Romero annota: “Non posso certamente cedere nelle cose essenziali, quando sia in gioco la fedeltà al Vangelo, alla dottrina della Chiesa e, in particolare, questo popolo così paziente, che non riescono a comprendere”.

In queste parole tutto l’Amore, o meglio la Passione (e di Passione vera si è trattata, visto l’attentato subito proprio al momento della consacrazione eucaristica, simbolo del sacrificio del Cristo)  per Vangelo, Chiesa e Popolo. Una Passione per questi tre “termini” che possono delineare,  in somma sintesi, il cammino di San Francesco d’Assisi. Così era Romero nella “battaglia” del ritorno semplice al Vangelo, nella fiducia e fedeltà alla Dottrina della Chiesa, e nello stare per, con, e in/nel popolo.



E, sopra tutto questo, la battaglia per la pace. Questa, inscindibile da Romero, inscindibile da  San Francesco. La “lotta d’Amore” contro i poteri militari. Famosa l’omelia prima della sua uccisione avvenuta 24 marzo 1980. L’appello inascoltato e vibrante per la pace fra gl’Uomini: “Vorrei rivolgere un invito particolare agli uomini dell’esercito... Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini; ma davanti all’ordine di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere […]. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può rimanere in silenzio di fronte a così grande abominazione [...]. In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo sempre più tumultuosi, vi chiedo, vi supplico, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione”. In questo così forte passaggio, il senso di appartenenza di tutti ad unica immensa famiglia, quella del genere umano.



Così come, dopo la morte, è stata altrettanto forte la “dimenticanza”, e ancor di più l’ingiuria contro il Vescovo Romero. Infatti, questa canonizzazione, avviene – possiamo ben dirlo – anche come riabilitazione della sua figura. Il Santo Padre Francesco, nel suo viaggio del 2015, davanti al popolo di El Salvador, già aveva “buttato il seme” della riabilitazione di cui, ora, assistiamo il pieno fiorire: “Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto — io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone — fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Cioè, è bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire. Ebbene, credo che ora quasi nessuno osi più farlo. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie”.



Antonio Tarallo

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