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Dire Francesco è dire Chiara

L'analisi del quadro in cui Francesco saluta la vita

di Elvio Lunghi

Sotto il dipinto sta scritto “Quando le turbe che vi erano convenute, con rami di alberi e un gran numero di ceri accesi, ne trasportarono ad Assisi il corpo sacro, reso più prezioso dalle gemme celesti, lo condussero alla beata Chiara e alle sacre vergini, perché potessero vederlo”. Francesco saluta la vita circondato dai suoi frati alla Porziuncola. Muore nell’ora del Vespro. Rapidamente la notizia si diffonde ad Assisi, una gran folla scende alla valle, ne prende il corpo e lo riporta alla sua casa in vetta al colle, quasi per voler chiudere in fretta il cerchio. La strada è la stessa percorsa innumerevoli volte da Francesco. Passa per la Maddalena, dove il Signore lo ha condotto tra i lebbrosi, per far loro misericordia e cambiare in dolcezza quel che gli sembrava amaro. Prende la via dell’Arce e raggiunge l’ospedale dove lo hanno accolto i Crociferi, secondo il Fioretto della vera e perfetta letizia: ”Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Sale a San Damiano, dove l’immagine di un Crocifisso gli ha mostrato il volto di Cristo, dove Chiara ha trovato pace e conserva la croce. Il corteo percorre le scelte di Francesco.

L’ultimo saluto non può essere che a Chiara, come racconterà Bonaventura nella Legenda Maior: “Venuto il mattino le folle, con rami e con gran numero di fiaccole, tra inni e cantici scortarono il sacro corpo nella città di Assisi. Passarono anche dalla chiesa di San Damiano, ove allora dimorava con le sue vergini quella nobile Chiara, che ora è gloriosa nei cieli. Là sostarono un poco con il sacro corpo e lo porsero a quelle sacre vergini, perché potessero vederlo insignito delle perle celesti e baciarlo”. Il racconto di Bonaventura è freddo e distaccato. Gli occorrono poche righe, tante quante sono le dita d'una mano. Non così quello di Tommaso da Celano, che dedica un intero capitolo della Vita prima alle lacrime versate da Chiara sul corpo senza vita di Francesco, dove brillano di luce nuova le stimmate sulle mani. A confronto con questa cronaca scritta a caldo, Bonaventura coinvolge una folla anonima, armata di torce e di fronde d’albero.

Il quadro che si vede in chiesa ci dà qualcosa di più. La barella con la salma di Francesco è portata da quattro magistrati identificati dal lucco e dal tocco che indossano, ma le torce che illuminano la scena sono portate dai frati che dal fondo intonano canti. Dietro la barella si accalca una folla di notabili vestiti a festa, nessuno dei quali porta una croce, nessuno è identificabile per un chierico o un monaco. Però c’è Chiara, esattamente al centro del quadro, nascosta sotto un manto color terra e sotto uno scapolare blù come il cielo. Un cerchio intorno al capo la identifica per santa. Si china e abbraccia un altro santo, anch’esso identificato da un nimbo. Una seconda suora bacia le mani di Francesco, un’altra i piedi segnati dalle stimmate. Altre sette suore escono dalle porte di una chiesa a tre navate: c’è chi piange, chi sorride lieta, tutte si aspettano di poter abbracciare e baciare per l’ultima volta l’amico. La vera protagonista è la facciata della chiesa dietro la quale si svolge la vita delle suore. Francesco l’aveva trovata in rovina e l’aveva restaurata con le sue mani nei primi tempi della sua conversione. Infine vi aveva stabilito Chiara, inquieta figlia di nobili in cerca di Cristo, fin quando lo trovò nell’esempio di Francesco, il figlio di un mercante che aveva reso concreta l’utopia del Vangelo.

Così San Damiano diventò l’unica via percorribile. Esattamente sulla parete opposta, il IV episodio della vita di san Francesco ritrae San Damiano nell’aspetto di una basilica romana priva della facciata in laterizio. Nel XXIII episodio la macchina in mattoni della chiesa si apre con una facciata rivestita di candidi marmi, di mosaici colorati, di statue tridimensionali, sul genere di cattedrali toscane come il duomo di Siena o di Massa Marittima, ornate da rilievi di Giovanni Pisano. La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo, San Damiano grazie a Chiara è diventato un paradiso. Eppure questa chiesa si trova alle porte di Assisi e i due pittori potevano facilmente imitarne l’aspetto reale. Scelsero infine di rendere omaggio ai rispettivi luoghi di origine, l’uno ritraendo un edificio romano, l’altro uno toscano. Come scrisse nel 2002 Bruno Zanardi, nel Pianto delle clarisse compare una variante del secondo modo di esecuzione degli incarnati, ”caratterizzato dalle stesse pennellate sottili e fittamente intrecciate del secondo modo, che qui tuttavia occupano per intero le superfici dei visi; e quasi nascondono il colore di preparazione verde, il cui valore tonale appare molto più intenso e freddo di quelli usati nel primo e nel secondo modo”.

È quello che chiamiamo il “Gotico” italiano, o meglio ancora il “Giottismo”, destinato a diventare la lingua figurativa comune all’intera penisola, quando la maniera di Giotto diventò una moda seguita da innumerevoli pittori, spesso anonimi, come prontamente segnalò Dante nella Commedia: “Credette Cimabue nella pintura / Tener lo campo, e ora ha Giotto il grido / sì che la fama di colui è scura”. Chi si convertì all’esempio di Francesco, chi a quello di Giotto.

 

 

 

 


Elvio Lunghi

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