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SUDAFRICA - Apartheid economico



Victor si ferma in una baraccopoli di Soweto. Nel giro di qualche secondo, decine di abitanti escono a salutare entusiasticamente il loro maestro, quel Victor Matom affermato fotografo che ha avviato una scuola di fotografia in una delle estreme periferie del mondo. Amico personale di Mandela ed esponente di spicco dell'ANC, aveva una carriera politica aperta fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, chiuse definitivamente con il movimento, uscendo di scena in silenzio, senza fare polemiche, perché non accettava la corruzione che stava insinuandosi nel partito.

«Sono un uomo d'azione», dice, ma sotto questa rinuncia covano le braci di una disillusione per questo Paese che, dopo aver tolto il velo dell'apartheid, non è riuscito a permettere che la massa di neri liberati dalle catene del razzismo, fosse pienamente inserita nella vita economica e sociale della nuova nazione. «Nazione arcobaleno» l'aveva soprannominata il vescovo Desmond Tutu per sottolineare la ricchezza di culture, lingue e religioni che hanno contribuito a far nascere il Sudafrica. Ma, come per l'arcobaleno, anche qui i vari colori sono nettamente distinti e così, la segregazione, abolita per legge, continua ad essere una realtà quotidiana.

Dopo decenni di lotte, la gente è stanca di combattere per degli ideali. Ora i nemici si chiamano disoccupazione, fame, povertà, tutti fattori che alimentano altrettante piaghe: omicidi, droga, furti. Una volta tanto, le cifre possono dare tangibile dimostrazione di quanto pesi, in questa nazione arcobaleno, nascere bianco o nero.

Nella sola Soweto l'80-90% della popolazione attiva è senza lavoro, in tutto il Sudafrica il 27% delle famiglie nere.

vive al di sotto della soglia di povertà, contro il 3% di quelle bianche, mentre la quasi totalità dei nove milioni di baraccati (su una popolazione totale di 45 milioni), sono neri. In una situazione sociale così sbilanciata, è comprensibile che il crimine sia patrimonio della comunità più disagiata, quella nera. La riforma agraria auspicata dai governi democratici che promettevano la distribuzione ai contadini entro il 2014 del 30% della terra statale coltivata, è ormai un miraggio. La colpa non è solo dello stato: le banche, per la maggior parte di proprietà dei bianchi, rifiutano di concedere microcrediti a tassi agevolati, così le aziende famigliari o le cooperative hanno difficoltà a reperire liquidi per iniziare qualsiasi attività. La stessa mancanza di denaro impedisce ai genitori di sostenere i costi per educare i propri figli, molti dei quali, già a 10-12 anni, devono varcare le porte delle fabbriche. Questo, assieme al fatto che 80.000 insegnanti sono stati dichiarati dallo stesso governo non qualificati, impedisce la formazione in tempi brevi di una classe colta nera, che potrebbe cooperare con la dirigenza bianca nel controllare la ricchezza del Paese.

I sindacati, tra i più forti di tutto il continente, cercano di proteggere i pochi diritti faticosamente conquistati. «Investire in Sudafrica non è più conveniente» afferma un uomo d'affari incontrato a Johannesburg. «I sindacati impongono salari troppo alti, rendono i licenziamenti più difficili e ci obbligano ad assumere personale a secondo delle “quote razziali”». Tutti, a parole, combattiamo lo sfruttamento dei Paesi del Terzo Mondo, ma appena questi alzano la testa, li abbandoniamo al loro destino. Forse, ora più che mai, il Sudafrica ha bisogno di cantare il Nkosi Sikelel'i Afrika il suo inno nazionale per ritrovare l'entusiasmo che ha permesso al suo popolo di sovvertire uno dei regimi moralmente più abietti che abbia mai avuto. Nkosi Sikelel'i Africa, Dio benedici l'Africa.

(Piergiorgio Pescali)

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