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Festa San Francesco

Dacia Maraini: san Francesco, i topi e la nascita del Cantico




di Dacia Maraini

C'è un quadro che rappresenta un San Francesco ancora giovane ma già provato dalla malattia, che a occhi socchiusi se ne sta seduto su un sasso, nell'orticello di San Damiano e sembra perso nei suoi pensieri. La leggenda racconta che proprio nel giardinetto di San Damiano, una mattina del 1224, dopo una notte di grandi sofferenze fisiche, vissute in una cella curiosamente invasa dai topi, Francesco abbia buttato giù i versi di una delle più belle poesie della nostra letteratura: Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messer lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.



Il dettaglio dei topi mi ha colpita. E ho provato a immaginare cosa fosse successo quella notte.
Francesco, esausto per la febbre e per i dolori alle ossa, se ne sta disteso sul lettuccio nella piccola cella nuda. Improvvisamente sente un leggero fruscio che sale dal pavimento. Gira la testa e vede dei corpiciattoli neri, silenziosi che escono a decine da un pertugio nel muro e si spargono per il pavimento. Che ci siano topi in giro per il convento lo sanno tutti. Ma possibile che si siano dati appuntamento tutti nella sua cella? Quando li vede, neri e grossi, accucciati sul pavimento, incuranti della sua presenza, Francesco ha un moto di ribrezzo. Non solo non badano a lui, ma sembrano talmente presi dalle loro faccende che squittiscono tranquillamente, si urtano, saltellano, sollevando e abbassando le lunghe code nere senza minimamente curarsi del suo corpo rattrappito dal dolore, disteso sulla brandina.


Francesco chiude gli occhi, mormora una preghiera a fior di labbra e poi li riapre sperando di avere sognato. Ma no, i topi sono sempre lì, anzi nel frattempo si sono moltiplicati. Il pavimento è coperto di bestiole pelose che sembrano essersi raccolte in assemblea. Francesco trasale. E se salgono sul letto e mi assalgono? si chiede spaventato. Ma certamente il suo è un delirio dovuto alla febbre. Sto vedendo quello che non c'è, si dice, la mia è tutta immaginazione. E per rassicurarsi, si dà un pizzicotto sul braccio. Ma deve ammettere che no, non sta sognando nè delirando. I topi sono lì e continuano a entrare da un buco in fondo alla cella. Più che un buco sembra una fessura appena visibile che si apre fra pavimento e parete. Entrano a due, a tre e si riuniscono agli altri. Ma cosa volete da me? grida Francesco, spaventato mentre i dolori alle ossa, a quella vista si fanno più acuti. Ma poi il suo animo contemplativo e gentile prende il sopravvento. Si solleva su un fianco, e con il capo dolente appoggiato a un gomito, si mette a guardarli con attenzione. Sono creature pure loro, si dice, sono creature di Dio. E piano piano, osservandoli bene, capisce che le bestiole sono divise in famiglie: un padre rotondetto e una madre un poco più piccola, aiutandosi coi denti e con le code, spingono dentro la cella i piccoli nati da poco: topolini grigi dalla coda rosa. Ma perchè proprio nella sua cella? Le labbra gentili si allargano in un sorriso di tenerezza: forse quelle bestiole hanno saputo di lui, della sua amicizia verso gli animali. Non si racconta che ha parlato a lungo con un lupo? che ha predicato agli uccelli sui rami? E allora quale posto più sicuro che la sua cella per tenere una grande riunione famigliare?



I topi, si sa, si moltiplicano rapidamente e ogni topolino che nasce dispone per lo meno di trecento cugini e trecento cugine. E poi ci sono gli zii, i nonni, le zie, le nonne. Ci vuole poco a fare un centinaio di creature. Ma perchè si sono riuniti oggi? Per festeggiare o per depredare? Francesco li osserva con attenzione appassionata e nota che piano piano hanno formato un cerchio e in mezzo al cerchio hanno posato un involto della grandezza di una mela. Quando tutti i topi sono seduti, uno di loro va a tirare coi denti e con le zampine lo straccio che chiude il fagotto. Gli altri topi tengono lo sguardo fisso su quei gesti veloci e sapienti. Infine i cenci sono caduti e nel mezzo del cerchio è apparso un grosso pezzo di formaggio appena intaccato dalla muffa che crea sui fianchi un colore fra il celeste e il rosa che fa pensare a un'alba primaverile. Che meraviglia di formaggio! All'ordine di uno che sembra essere il capo, la prima fila di topi si avvicina al cibo e con i denti aguzzi ne gratta via una parte. Gli altri osservano e controllano nel silenzio più completo. Anche i più piccoli sono lì immobili e silenziosi a fissare con occhi incantati l'appetitoso pezzo di cacio. Appena il primo cerchio ha finito, torna al suo posto formando un altro cerchio, spostato rispetto ai primi. Ora tocca al secondo cerchio che si avvicina a sua volta, ordinatamente, per rosicchiare ciò che gli spetta. E così via, fino al quinto, al sesto cerchio. Senza che nessuno dei topi, nè piccoli nè grandi, gratti con prepotenza più formaggio di quanto gli sia consentito.
Infine, quando hanno finito tutti di rosicchiare e masticare, ecco che si ritirano in buon ordine verso l'apertura nel muro e con pazienza, senza spingere, spariscono al di là della parete, facendosi piccoli per passare attraverso la fessura.



Solo un topo è rimasto nella cella e ora si siede accanto al letto del malato con fare delicato, come un vecchio saggio. Solleva in alto il capino dai lunghi baffi che gli tremano leggermente sul muso umido e guarda il santo con attenzione. Proprio come l'aveva guardato il lupo. Con amicizia e gratitudine. Non c'è bisogno di parole. Quegli occhi piccoli e dilatati, lucidi di gioia di vivere, gli dicono che la natura è bella, che il sole è un fratello, come sorelle sono la luna e le stelle, che l'acqua e il fuoco sono amici dell'uomo, ma anche dei topi. Poi, dopo avergli indirizzato un lieve e garbato inchino, il topo si ritira anche lui al di là del muro. In terra non è rimasto niente, neanche un briciolo di cibo. Perfino lo straccio in cui era avvolto il formaggio è sparito. Nell'aria rimane solo un leggero odore di selvatico. Francesco sorride e sente che i dolori, misteriosamente sono andati via dal suo corpo febbricitante. Perciò si alza dal letto ed esce nel giardinetto di San Damiano, dove, seduto su una pietra al sole tiepido della nuova primavera, si accinge a scrivere quelle parole chiare e gentili, belle e fresche che ancora oggi ci comunicano un senso di fratellanza con la natura. Dobbiamo ringraziare i topi di Assisi?

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