Il sinodo dell’informazione. Un’occasione per riflettere sulle parole che usiamo
Dal 24 al 26, ripensare il mondo dell'informazione per ripartire dalla Carta di Assisi
Il sinodo dell’informazione di Assisi offre a tutti gli operatori dell’informazione di riflettere anche sulle parole che usano, per capire se a volte siano pietre, o muri, parole scelte per offendere, o dividere, cioè rendere più diffide capirsi. Ovviamente l’esempio più semplice è quello di “migranti”. Cento persone su un barcone alla deriva sono migranti o sono naufraghi? Sembra incredibile che tutti li chiamiamo migranti, quando è evidente e noto a tutti che questa parola è stata scelta intenzionalmente per liberarci dall’obbligo di soccorso e riversare su di loro una condizione che presume una ponderazione e non un’emergenza.
Ma in questo mio piccolo scritto vorrei soffermarmi con lo stesso spirito, cioè quello di non impedire con un artificio la reciproca comprensione, su un’altra espressione che purtroppo ormai appartiene al linguaggio comune. Mi riferisco a “fine vita”. Con la discussione sul “fine vita” ci riferiamo alla discussione di legge su quei casi limite che rendono problematico capire come regolarsi con chi soffre nella maggioranza dei casi senza prospettive. Vogliamo “aiutarlo” a morire per ridurre le sue sofferenze divenute inutili o vogliamo liberacene per ridurre le nostre di sofferenze? Ovviamente la discussione è lecita e rilevante, ma non riguarda il “fine vita”. A parte il fatto che da parte dei credenti non si capisce perché insistere su questa espressione e non su quella “inizio viaggio”. Se dopo la vita c’è l’altra vita, allora il nome giusto per loro dovrebbe essere proprio “inizio viaggio”. Ma forse non è questo il nome giusto per tutti, perché alcuni non credono che dopo la vita ci sia altro. Dunque? Dunque il termine giusto sarebbe “accanimento terapeutico”. Quando è lecito parlare di accanimento terapeutico? E quando non lo è? Questo è il vero oggetto dei una discussione che riguarda tutti ma che non coinvolge tutti. Parlando di legalizzazione del “suicidio assistito” si dà l’impressione di voler legalizzare anche il suicidio per un giovane turbato da una cocente delusione amorosa. Non è così. Nessuno, o quasi nessuno, in quel caso ritiene appropriato consentire o assecondare il suicidio.
La Chiesa cattolica ha dato la sua risposta alla discussione su cosa sia l’accanimento terapeutico, risposta che essa stessa però non ha rispettato. Per la Chiesa infatti l’accanimento terapeutico non può mai riguardare l’alimentazione e l’idratazione di un malato. Eppure nel caso di Piergiorgio Welby fu negato il suo funerale in chiesa pur avendo lui scelto di interrompere né alimentazione né idratazione, ma ventilazione. Perché? La dottrina cattolica non proibisce la sua scelta… Da allora è evidente che il punto è un altro. Ma qual è? E quella di ritenere che non esistono i diritti umani mentre esistono i diritti di Dio? L’uomo non può togliere la vita sostituendosi a Dio? E’ questo il punto? E allora perché la ventilazione o altre terapie possono essere interrotte per evitare l’accanimento terapeutico?
Proprio il drammatico caso di Piergiorgio Welby ci ha aperto gli occhi su una concezione che dalla tutela della vita passa alla tutela dello scientismo. A quel punto proseguire nelle terapie non fa sì che ci sostituiamo a Dio nel prolungare la vita?
In questa discussione ovviamente i non credenti devono dare anche loro una diversa disponibilità ad accettare la sofferenza come parte della vita, come un suo elemento da accettare e non da rimuovere nel nome di un edonismo che spesso ci fa perdere di vista il malato e ci fa vedere solo la malattia. Questo edonismo esiste, questa incapacità di soffrire e di accettare anche la sofferenza va capita psicologicamente e sociologicamente.
Ma il primo elemento che impedisce di capirsi e di discutere veramente del malato e dei suoi diritti è proprio quello di seguitare a parlare di “fine vita”.
Riccardo Cristiano - Articolo21.org
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