San Francesco d'Assisi, l'esempio da seguire per vivere la nostra realtà
Povertà e obbedienza costituiscono le modalità concrete e i connotati salienti del suo modo di essere.
di Redazione online
Per come traspare dai suoi scritti, due, mi pare di poter dire, sono per Francesco i momenti caratterizzanti la vita di Cristo: l’incarnazione, che rappresenta il radicale rovesciamento della sua condizione, manifestando nella scelta della povertà il suo senso profondo (“Qui cum dives esset super omnia, voluit ipse in mundo cum beatissima Virgine, matre sua, eligere paupertatem” - EpFid II, 5); e la sua passione e morte (abbandono esemplare della sua volontà nella mani del Padre in un atto di estrema obbedienza – EpFid II, 8 sgg.). L’uno e l’altro trovano una continuità di memoria esemplare e una concreta riproposizione nell’eucaristia (Adm I, 16 sgg.). La logica dell’incarnazione come la via della croce sono alternative ai criteri e agli orientamenti operanti normalmente tra gli uomini. Ed è la stessa logica della propria presenza nella storia che con l’eucaristia Cristo ripropone a chi sappia riconoscerlo.
La vita evangelii, a imitazione del Cristo, si attua dunque, deve attuarsi, tra gli uomini ma opera con criteri e comportamenti abitualmente alternativi a quelli dominanti. Povertà e obbedienza costituiscono le modalità concrete e i connotati salienti del suo modo di essere. I termini e i testi di riferimento sono gli stessi della scelta monastica, le modalità concrete di attuazione sono però radicalmente diverse: la scelta di campo all’ultimo gradino della scala sociale che Francesco attua per sé ed i suoi è infatti la premessa essenziale dell’autenticità della testimonianza evangelica. La logica profonda che animava i comportamenti e gli insegnamenti di Cristo deve infatti incarnarsi in atti e modi di essere precisi, misurati sulle condizioni del proprio tempo, per poter mostrare tutta la propria forza dirompente di novità, di “segno” alternativo proposto alla vita degli uomini (da qui la definizione di se stessi come “ioculatores Domini”, assumendo così su di sé la figura di personaggi marginali ed emarginati nella società del tempo; o ancora il perentorio invito ai fratelli: “Tutti i fratelli devono godere quanto vivono tra persone vili e disprezzate, tra poveri e deboli e malati e lebbrosi e mendicanti per via” – Rnb, IX, 2). È questo insieme di modi di essere che offre il senso profondo del saluto di pace che i fratelli porgono nel loro incontro con gli altri (“il Signore ti dia pace”).
Ma proprio i caratteri di tale testimonianza impediscono in Francesco volontà, azioni e ambizioni di intervento e di modifica delle condizioni della Chiesa e della società: sarebbe riassumere compiti e funzioni che esulano del tutto dalle possibilità e dai modi di essere dei “pauperes”, sarebbe un rivendicare implicitamente “poteri” che smentirebbero, annullandolo, il senso stesso di quella testimonianza. Ciò che Francesco e i suoi devono fare è di mostrare con la loro vita un’alternativa, un modo di essere diverso dai rapporti e dai comportamenti dominanti tra gli uomini: mostrare quei “nova signa caeli et terrae, quae magna et excellentissima sunt apud Deum et a multis religiosis et aliis hominibus minima reputantur” (EpCust I, 1).
Loro compito è, se così si può dire, dare testimonianza che una prospettiva diversa per la vita di tutti esiste, anche se esula da quel compito l’operare per realizzarla. Credo stia qui un passaggio cruciale per cercare di capire il modo di guardare di Francesco alle realtà e alle condizioni del proprio tempo, il suo modo di muoversi rispetto ad esse. Egli addita una strada, profila una possibilità. Sogna, mi verrebbe da dire, un mondo diverso. Lo suggerisce quella grandiosa prospettiva di riconciliazione cosmica implicita nella sua celebre composizione in volgare variamente intitolata “Lodi di Dio altissimo”, “Cantico di frate sole”, “Cantico delle creature”. Francesco la scrisse due anni prima della morte, in un momento di gravi sofferenze fisiche e morali: per le malattie che lo affliggevano, per le incertezze sul destino del movimento che da lui era nato, per l’assillante domanda sul “che fare?”, da cui era tormentato. Il “Cantico” guarda oltre e guarda alto: profila la linea di superamento dei tanti dubbi e difficoltà. Nel suo insieme infatti è un inno di lode al Signore e a tutte le sue creature, un inno di lode e di ringraziamento per tutto ciò che grazie a loro egli ha donato e dona agli uomini. Ripercorriamone la sequenza: sole, luna e stelle, vento, acqua, fuoco, madre terra, cui si aggiunge la pace tra gli uomini grazie al perdono reciproco che apre la strada ad una morte vissuta nella pace con Dio. Non a torto Grado Merlo lo ha definito una canto in cui si celebra una pacificazione cosmica, del creato e degli uomini che in esso vivono. È una definizione che merita sottolineare: “un canto di pacificazione cosmica”. Non è una definizione ovvia. Perché dunque, e da quale punto di vista, si può dire così?
La ragione, solo che si rifletta un momento, sta nei caratteri stessi degli elementi chiamati in causa, vorrei dire nella duplicità intrinseca dei ruoli che svolgono e possono di volta in volta svolgere. Francesco li evoca tutti nel loro versante positivo, di utilità e servizio alla vita degli uomini. Viene messo da parte e apparentemente ignorato così il loro versante minaccioso e distruttivo, ben presente nella vita quotidiana di quei secoli, ragione di costante pericolo e ricorrenti angosce.
È una constatazione che vale per tutti: cronache e memorie del periodo ne danno periodica e dolorante registrazione. Francesco non poteva certamente ignorarne la realtà. Basti qualche breve cenno: il sole cocente che brucia i raccolti e inaridisce la terra; la luna, occasione e causa di quei terrori notturni che hanno lasciato nel folklore dei più diversi popoli tracce copiose; il vento, che quando soffia impetuoso abbatte tutto ciò che trova al suo passaggio; l’acqua portatrice di distruzione e morte come la memoria mitica del diluvio sta a ricordare e come l’esperienza ricorrente conferma; il fuoco, minaccia permanente per le abitazioni comuni, abitualmente di legno; la terra, incubatrice periodica di rovinosi terremoti
L’elogio, la lode, il ringraziamento con cui Francesco accompagna la loro menzione acquistano, mi pare, più densa pregnanza e più esplicito significato se si tiene presente questo complesso contraddittorio retroterra in cui tutti si collocano. La sequenza dei vari elementi che si succedono nel Cantico e i termini che ne caratterizzano l’insostituibile positività costituiscono implicitamente anche un invito ad andare oltre all’esperienza ricorrente dei tanti danni di cui possono essere portatori, a superare la dolorosa realtà del presente; profilano un creato e una società pacificati con se stessi e con Dio. Francesco, come spesso succede, parlando di Dio guarda in primo luogo agli uomini e al loro fare. Non a caso, nella lettera ai “custodi” già citata, egli ricorda che il compito suo e dei suoi è di portare l’“annuncio di nuovi cieli e di nuove terre” all’umanità. Il Cantico dunque non è solo un invito a lodare Dio per i tanti doni che nella natura ci offre. Perché è anche un invito, se si tiene conto della realtà in cui si inserisce, a curarli, quei doni, a coltivarli e rispettarli, soprattutto ad adottare come lui “occhi” diversi per guardare a un diverso futuro.
Giovanni Miccoli/storico
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