Giornata comunicazioni sociali. Siamo tutti coinvolti
Ne è convinto Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione
"L’era delle Rete ci dice che il mondo della comunicazione non è più, se mai lo è stato, un mondo a parte, fatto di professionisti, giornalisti, mediatori. È il nostro mondo. È il mondo degli uomini. Se saranno i miliardi di fruitori della Rete a esigere per se stessi e per tutti un futuro caratterizzato dalla condivisione della regola di base che tutti ci unisce, allora la Rete saprà farci riscoprire come membra gli uni degli altri. Altrimenti, pensando di ritrovarci fra uguali, più uguali di altri, finiremo con il perderci". Ne è convinto Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione, che approfondisce il messaggio di Papa Francesco per la 53ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, nel volume "Dalle communities alle comunità" (Ed. Scholè). Pubblichiamo il testo integrale della sua riflessione.
A volte c’è bisogno che qualcuno ce le indichi, le cose, per vederle. Anche quando sono sotto i nostri occhi. Anche quando ci siamo dentro. Perché a volte il nostro sguardo è corto, non riesce ad alzarsi. In fondo è questo ciò che ci trasmette papa Francesco con il suo Messaggio per la 53ª Giornata mondiale per le comunicazioni sociali.
Con una pazienza che sfida il paradigma contemporaneo dell’impazienza, Francesco ci riporta all’inizio di una storia personale, la nostra; e all’inizio di una storia comune, quella delle comunicazioni sociali nell’era della Rete; per evitare il rischio che entrambe si perdano, e vadano in frantumi.
“Siamo membra gli uni degli altri” non è un modo di dire. È la verità di quello che siamo anche se troppo spesso lo rinneghiamo. Questa è poi la costante tentazione dell’uomo, spezzare ciò che ci fa allo stesso tempo unici e parte di un tutto, illuderci di poter separare il nostro destino da quello degli altri; e anche il proprio intelletto dalla propria anima. Davvero la divisione è il paradosso del nostro tempo. Così connesso e denso di solitudini. Fondato sulla comunicazione e vittima dell’incomunicabilità.
Potremmo dire forse, come Charles Dickens, che siamo nel migliore e nel peggiore di tutti i tempi. Nell’era della saggezza e della stoltezza. Un’era che rischia di smarrire anche il senso stesso delle parole. La Rete serve per connettere, per mettere in relazione. Comunicare significa cercare, ostinatamente anche, una relazione. A volte la contemporaneità appare rassegnata a vivere di surrogati. O di nostalgie. Soggiogata dall’idea che ciò che è giusto non sia possibile. Così sembra invocare il dialogo, ma poi si appaga, anche in Rete, del monologo. Dichiara volere la verità, ma poi insegue (quasi reclama) promesse bugiarde in cui poi crede.
Come ha scritto il Papa nella sua ultima Esortazione apostolica, Gaudete et exsultate, oggi è possibile navigare su due o tre schermi contemporaneamente, e interagire in diversi scenari virtuali. Ma senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento. Tutto questo – ha affermato papa Francesco – sfida il mondo della comunicazione a percorrere la via lunga della comprensione, invece di quella breve che presenta le singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale, è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva.
Questa è la nostra frontiera, di cristiani, di comunicatori. Questa la nostra responsabilità. La nostra missione. Un giorno, i nostri figli, i nostri nipoti, potrebbero chiederci «ma voi dove eravate?». Se non vediamo dove siamo, rischiamo di essere ciechi guidati da altri ciechi, che anziché costruirlo – il futuro – lo minano. Di fronte a chi semina divisione, di fronte a chi ritiene che si combatta la inciviltà diventando incivili, l’unica risposta possibile è quella che ci fa ripartire dall’inizio.
Siamo membra gli uni degli altri. La Rete è nata per unire, non dividere. Per condividere il bene, il bello, la conoscenza, non il male, il brutto, la falsa conoscenza. Sulla tomba, di don Lorenzo Milani il Papa ha ricordato agli uomini di oggi, divisi e confusi, una delle sue massime più celebri: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia».
Quella che apparentemente può sembrare solo una questione di parole – network, comunità – è dunque in realtà la questione centrale del nostro tempo, così veloce e confuso, unito e frammentato, spavaldo e spaventato. È una questione che riguarda ognuno di noi, come persona; e tutti noi come genere umano. Riguarda il rapporto fra l’uomo (tutto intero, in carne e ossa, anima e corpo) e la tecnologia; il modo in cui la tecnologia cambia (perché lo cambia) il rapporto fra gli uomini; e dunque in sostanza la nostra natura.
Ma riguarda anche la tecnologia, la Rete, che da mera infrastruttura tecnologica è divenuta (o almeno così ci appare) l’ambiente delle nostre vite, il mondo che abitiamo, persino una estensione di noi stessi (della nostra memoria, della nostra cultura, della nostra conoscenza). Un luogo, dunque, che come tutti i luoghi, può essere magnifico o terribile. Un luogo che però, diversamente da altri luoghi, ha la possibilità di assumere forme diverse, di camuffarsi, di mangiarsi la nostra anima con l’alibi perfetto di volerla al contrario esaltare.
Se lo spazio del comunicare diventa la realtà invece di limitarsi a rappresentarla, il rischio è che la chiacchera si sostituisca alla verità, e l’identità individuale sia schiacciata da quella collettiva, fragile, feroce, mutevole.
Davvero sta a noi non assecondare una deriva che trasformerebbe la Rete in quel che essa per sua natura non è (non necessariamente almeno) e non era quando è stata immaginata ed è poi nata. Il progetto non era quello di un luogo dove più ci si addentra più aumenta il rischio di perdere l’orientamento, anche la coscienza di sé, la propria unicità, la propria identità personale; e di rimanere intrappolati in scatole chiuse, in un gioco che può finire con l’annullare ogni relazione vera, ogni dialogo sincero, ogni capacità di comprensione. Ciò che mosse Timothy John Berners-Lee e Robert Cailliau fu esattamente il contrario. Aprire e non chiudere. Unire non dividere. Sta a ognuno di noi dimostrare che questo è possibile e testimoniare – anche in Rete – la bellezza del sentirsi un’unica comunità.
Sta a noi restituire alla Rete il suo significato più bello, e più legato alla natura dell’uomo: la bellezza dell’incontro, del dialogo, della conoscenza, della relazione, della condivisione. Questa è l’anima del Messaggio del Papa. Una chiamata alla responsabilità sul futuro della Rete, il nostro nuovo mondo digitale. Che da un lato distrugge ogni alibi (non sapevo, non ricordavo) dall’altro costruisce alibi perfetti, spaccia l’autentica menzogna per obiettiva verità, insegue fantasmi che costruisce instancabile. Che da un lato riscatta le periferie dalla loro marginalità (nella Rete non c’è centro e non c’è periferia; ogni nodo è il centro); dall’altro rischia di ridurre tutto ad un “non luogo” dove lo spazio, e il tempo, sono annullati; dove la parola è disincarnata, volubile, inconsapevole; e le relazioni sono fragili; la democrazia vulnerabile; la radicalizzazione violenta una tentazione facile, nutrita da identità fondate sulla negazione dell’altro, sulla gogna astiosa.
Pollice pro, pollice verso. Game on, game over. Questa sembra la regola binaria che fa della Rete qualcosa di potente e terribile. Capace di dare una tribuna a chiunque, ma anche di produrre maggioranze feroci e minoranze fanatiche. Capace di unire, ma anche di scavare divisioni profonde. Trasparente, ma anche opaca. Custode della verità, ma anche amplificatore della menzogna. Nel suo futuro c’è il male e c’è il bene, e c’è la scelta fra il bene e il male. Che sta a noi. E qui è la sfida della nostra capacità di testimoniare la verità e la bellezza dell’essere membra gli uni degli altri. Nella Rete. E nel mondo fisico. Che insieme fanno il nostro mondo.
Oltre il paradigma tecnocratico
Un tempo le informazioni erano limitate e la comunicazione avveniva attraverso l’interpretazione delle poche informazioni di cui si era in possesso. Sia a livello personale che globale. Oggi noi siamo in possesso di una quantità smisurata di informazioni (non sempre vere) e di interpretazioni che a loro volta possono essere (volutamente o no) false. Spesso le opinioni fanno a meno dei fatti.
I big data e l’incrocio dei dati hanno sacrificato qualsiasi privacy. Il web viene ridotto al dualismo feroce che ne costituisce forse il Dna, ma che non ne esprime la bellezza, la complessità, la positività. Per questo il Papa ci invita a uscire dal gioco di specchi del narcisismo auto-contemplativo e della ostilità preconcetta verso chi non ci appare esattamente uguale a noi.
Francesco ci ricorda che la comunicazione si realizza solo nella realtà, accettando la realtà, incontrando la realtà, incontrandosi nella realtà. E ci dice anche quanto sia facile costruire e divulgare false convinzioni sulla base di false rappresentazioni della realtà. Di qui la necessità (per saper vedere) di aprirsi al dialogo, all’ascolto. Si può usare la comunicazione per unire, oppure per dividere. Ci si può accontentare della connessione, che spesso però divide con l’alibi di unire; oppure si può cercare la comunicazione vera. Ci si può accontentare del paradigma tecnocratico, o si può cercare di costruire proprio attraverso la comunicazione un mondo più a misura d’uomo; rompendo l’isolamento che paradossalmente si nutre di una connessione sterile, spogliata della comprensione, della solidarietà, dell’aiuto reciproco.
Le reti – ci ha ricordato il Papa a Panama, alla 34a Giornata mondiale della gioventù – servono a creare contatti, ma da sole non hanno radici. Non sono in grado di darci appartenenza, di farci sentire parte di uno stesso popolo. E senza questo comune sentire tutto il nostro parlare, riunirci, incontrarci, scrivere, sarà segno di una cosa a metà, di una fede a metà.
Solo in un dialogo non sradicato si afferma la verità. Non per imposizione. Ma per riconoscimento del fatto che essa non è una convinzione. Solo la menzogna teme il dialogo, e dunque lo impedisce, divide. Il dialogo non può essere mai relativismo, ma logos da condividere, ragione per servire nell’amore e costruire insieme una realtà liberatrice. In questa dinamica, il dialogo svela la verità e la verità si nutre del dialogo.
Papa Francesco ci invita dunque a domandarci costantemente cosa mettiamo in rete, cosa mettiamo in circolo; ci spinge a interrogarci: la nostra comunicazione semina un futuro felice di comunione o un futuro tragico di scontri e contrasti tra figli di Dio?
Nel suo discorso indirizzato ai giornalisti dopo la sua elezione, il Papa diceva: «Il vostro lavoro […] comporta una particolare attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza; […] la Chiesa esiste per comunicare proprio questo: la Verità, la Bontà e la Bellezza […]. Dovrebbe apparire chiaramente che siamo chiamati tutti non a comunicare noi stessi, ma questa triade esistenziale che conformano verità, bontà e bellezza».
Ancora da cardinale, nel suo discorso al Terzo Congresso dei comunicatori cattolici tenutosi a Buenos Aires nel 2002, Jorge Maria Bergoglio affermava: «Bene, verità e bellezza sono inseparabili al momento della comunicazione tra noi. Inseparabili nella loro presenza e nella loro assenza. E in questo ultimo caso il bene non sarà bene, la verità non sarà verità, la bellezza non sarà bellezza. […] Quando le immagini, o le informazioni, hanno il solo scopo di indurre al consumo, o di manipolare le persone, ci troviamo di fronte ad una aggressione, ad un agguato».
Approssimarsi alla verità – spiegava sempre il card. Bergoglio – è possibile solo facendosi prossimo all’altro. Ma ci si può approssimare bene o male. Si può scegliere di adottare una etica ed una estetica costruttive: oppure una etica e una estetica distruttive. In ogni caso, chi ha a cuore la verità è sempre attento (proprio per diffonderla) alle reazioni di chi riceve le informazioni, tenta di stabilire un dialogo, ascolta i diversi punti di vista. Non si accontenta mai di stereotipi. Papa Francesco lo ha ribadito anche a Panama nel 2019.
La compassione è un passaggio obbligato, un momento centrale, per comprendere. Patire con che è il contrario esatto del dividersi da. «Mi preoccupa – ha sottolineato – come la compassione abbia perso la sua centralità. […] Anche nei mezzi di comunicazione cattolici, la compassione non c’è. C’è lo scisma, la condanna, la cattiveria, […] la denuncia dell’eresia … Che non si perda nella nostra Chiesa la compassione».
Davvero, i mezzi di comunicazione ci sfidano, ogni giorno, alla scelta (binaria anche essa) tra il bene e il male. Sta a ognuno di noi, come singoli, e come gruppi, scegliere. Ogni volta verso dove tendere. Sta a ognuno di noi esercitare nel giornalismo come in tutto ciò che condividiamo sui social, l’arte di vedere prima di raccontare. Di comprendere prima di riassumere. Questo è il nostro compito.
Anche su questo il Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni ha una radice lontana nel pensiero di Jorge Mario Bergoglio, che nel 2006 in un discorso all’Associazione della Stampa Argentina affermava: «La comunicazione, vista come spazio comunitario per cercare la verità, favorisce il bene della comunità e aiuta ad evitare attacchi. Si muove tra i conflitti e le situazioni più difficili senza aggiungere drammi e incomprensioni, con rispetto per le persone e le istituzioni. Non si cerca la verità per dividere, contrapporre, attaccare, squalificare, disgregare. Anche nelle situazioni più conflittuali e dolorose c’è un fondo di bene da recuperare e la verità può guidarci verso il bene, perché una verità non buona è, in definitiva, una bontà non vera».
La capacità di lasciarci sorprendere da Dio
Rimane, certo, il problema del male. Il mistero del male. In che modo il racconto della realtà, così intrisa anche di male, può contribuire a far crescere il bene? Innanzitutto attraverso la consapevolezza che il male c’è. E va scoperto per essere combattuto. La realtà non può essere ignorata, nemmeno quando può far male. Va guardata. Compresa. E riscattata da uno sguardo vero. Senza paura.
Sempre a Panama, il Papa ha usato un’immagine paradossale, che però esprime appieno il paradosso cristiano, per spiegare il mistero di questo sguardo, e della sua capacità di spiegarsi e spiegare il mondo proprio attraverso la comunicazione. Lo ha fatto dicendo che non dobbiamo mai perdere la capacità di lasciarci sorprendere da Dio, lì dove siamo. Come è accaduto a Maria, influencer di Dio che, senza bisogno delle reti sociali, è la donna che ha avuto maggiore influenza nella storia.
Lasciarsi sorprendere è esattamente il contrario di pensare di sapere già tutto, di etichettare tutto. Essere influencer nel XXI secolo – ha sottolineato il Papa – significa essere custodi delle radici, custodi di tutto ciò che impedisce alla nostra vita di divenire gassosa ed evaporare nel nulla. Custodi di tutto ciò che ci permette di diventare davvero parte gli uni degli altri. E di ricondurre tutto a unità nella verità e nella bellezza originaria delle nostre vite.
Incontrarsi, parlarsi, guardarsi negli occhi è fondamentale per riscoprire la bellezza di essere una cosa sola. In sostanza, dobbiamo prenderci sulle spalle il peso della nostra parte di responsabilità, consapevoli di quanto la Rete abbia reso visibile il nostro essere membra gli uni degli altri. Se guardiamo ai paradigmi del nostro tempo, riscoprire questa verità significa:
reagire all’idea che tutto si possa ricondurre ad un dualismo feroce (mi piace-non piace, amico-nemico, ti scrivo-ti cancello) che riduce la vita ad un gioco; ricondurre alla realtà le persone intrappolate in questo circolo vizioso; non pensare che l’intelligenza artificiale possa sostituire la responsabilità personale;
non sostituire con il sentimento collettivo il sentimento che nasce dall’incontro; superare il paradosso della incomunicabilità diffusa nella società della comunicazione, riconnettendo comunicazione e comunità; abbandonare un linguaggio vanitoso e irresponsabile che si esalta nel brivido della violenza, anche solo verbale, costruita in arene sempre meno virtuali, sostituendolo con linguaggio sobrio, schietto, che si compie nella capacità di farsi carico dell’altro. E significa passare: da uno schema che divide sempre fra noi e gli altri alla consapevolezza di ciò che ci unisce; dal frettoloso rifugio nelle risposte facili, alla capacità paziente di porsi le domande ultime; dalla superficiale ricerca di capri espiatori o di salvatori della patria alla via lunga della comprensione della complessità del reale; dalla esibizione cinica del dolore alla capacità di entrarci dentro con rispetto, discrezione, partecipazione, per condividerlo, per riscattarlo, trasfigurarlo.
Se comunicare significa saper vedere e raccontare la verità, la beatitudine che sfida i comunicatori – così orgogliosamente convinti che la purezza sia la caratteristica degli ingenui – è proprio quella dei Beati i puri di cuore perché vedranno Dio che – come svela Maria nel Magnificat – «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore».
Riscoprirsi membra gli uni degli altri significa recuperare la capacità di guardare negli occhi e lasciarsi interrogare in ogni momento – come suggerisce il Papa – dagli uomini in carne e ossa. Non dai concetti o dai pregiudizi ma dagli occhi di chi è uguale a noi.
L’era delle Rete ci dice che il mondo della comunicazione non è più, se mai lo è stato, un mondo a parte, fatto di professionisti, giornalisti, mediatori. È il nostro mondo. È il mondo degli uomini. Se saranno i miliardi di fruitori della Rete a esigere per se stessi e per tutti un futuro caratterizzato dalla condivisione della regola di base che tutti ci unisce, allora la Rete saprà farci riscoprire come membra gli uni degli altri. Altrimenti, pensando di ritrovarci fra uguali, più uguali di altri, finiremo con il perderci.
Paolo Ruffini - Agenzia Sir
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