Di che colore erano gli occhi di san Francesco?
di Franco Cardini
Non mi pare che nessuna fonte ci dica di che colore fossero gli occhi di Francesco. Sappiamo che aveva le orecchie piccole, aggraziate, leggermente appuntite: contrariamente a una tradizione iconica che invece le rappresenta ampie e prominenti. Ma gli occhi, no. Molto sappiamo invece delle malattie che li affliggevano, specie dopo la visita in Egitto durante la quale forse contrasse qualche infezione: occhi deboli, arrossati, lacrimanti, che egli usava detergere con un panno auguriamoci morbido e immacolato. Sappiamo anche delle cure alle quali fu sottoposto: l’oculistica, tanto quella antica quanto quella araba che il medioevo occidentale aveva ereditato, erano entrambe abbastanza raffinate, specie in materia di colliri.
Di lì a poco, l’Europa avrebbe anche cominciato a disporre di occhiali: ma non sapremmo dire quanto efficaci. Era quindi un Francesco sofferente, quasi cieco, quello che nel ’23 celebrò il Natale a Greccio e che l’anno seguente, in San Damiano, scrisse il Cantico delle Creature. Mi ha sempre colpito e commosso la presenza, di quella ch’è forse la poesia in volgare italico più bella che sia mai stata scritta, della luce e del colore: messer lo frate sole, “bello et radiante cum grande splendore”; la luna e le stesse, “clarite, preziose et belle” nell’azzurro cupo del cielo notturno; il fuoco “robustoso et forte”, che illumina il nero della notte; la terra, che produce “fructi, con coloriti flori et herba”; l’acqua, che nell’aggettivo “preziosa” riluce nel suo argenteo fluire; la corona che attende coloro “che perdonano per lo Tuo amore”, che sarà fulgida dell’oro fino delle tavole d’altare.
L’oro, l’argento, il rosso, il blu, il verde, il nero. Sono i colori delle miniature. D’altronde, l’indagine cromostorica è – come ben hanno dimostrato gli studi di Michel Pastoureau – molto difficili: e la difficoltà maggiore risiede nello stabilire un rapporto tra i colori che percepiamo e le parole che usiamo per esprimerli. D’altronde, nelle parole di Francesco forte si avverte l’influsso della scienza del tempo: ad esempio quella dei lapidari, i trattati sulle pietre e sulle gemme, nei quali s’insiste sul rapporto tra il cielo e il sottosuolo, tra il firmamento e le cavità della terra che custodiscono i metalli e le pietre preziose. La “preziosità” delle stelle risiede anche in questo.
Sulla base di questo rapporto tra le “virtù” celesti, emananti dagli astri, e le gemme nelle quali esse vengono impresse, si fonda la dottrina dell’amor cortese espressa da Guido Guinizzelli nel “manifesto” del Dolcestilnovo, al canzone Al cor gentil. E non stupirà certo riscontrare come il poeta assisano Francesco di Bernardone, che ben conosceva la Fin’Amor dei trovatori occitani, possa esser considerato un precursore dell’arte dolcestilnovistica.
Franco Cardini
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