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FRANCESCANESIMO E MATERNITÀ

di Redazione online
Credit Foto - Giotto

Il 27 agosto del 387, nella casa di Ostia, Monica prendeva commiato da suo figlio Agostino: «Figlio, per conto mio nulla più mi attrae in questa vita. Che cosa io mi faccia qui, perché ancora vi rimanga, non lo so: ogni mia speranza in questo mondo è compiuta. Una cosa sola mi faceva desiderare di vivere ancora un poco: vederti cristiano cattolico prima di morire. Iddio mi ha dato anche più del mio desiderio, perché ti vedo diventato suo servitore, nel disprezzo della felicità terrena. Che faccio qui?».

Monica se ne andava serenamente: il suo compito era finito. Aveva partorito Agostino due volte, la prima nel corpo, la seconda nello spirito. Adesso lui poteva tornare in Africa, e iniziare, senza la madre, la sua vera vita di monaco, vescovo, filosofo cristiano. L’anno precedente, alla fine dell’inverno, sempre a Ostia, l’addio della matrona romana Paola ai suoi figli era stato molto diverso. Aveva preso la nave che doveva portarla da Girolamo, in Palestina, lasciandosi alle spalle tutto quanto: casa, ricchezze, prestigio sociale, e soprattutto un figlio ancora fanciullo che, sul molo del porto, in lacrime, tendeva verso di lei le mani supplici. Ma la donna, anche se aveva le viscere straziate dal dolore, «ignorava in sé la madre, per provare in sé l’ancella di Cristo». I due ritratti femminili tracciati nelle Confessioni di Agostino e nell’epitaffio di Girolamo ci danno indicazioni profondamente diverse sul ruolo materno: Monica è colei che, compiendo sino in fondo il suo dovere di madre, si fa strumento di salvezza per il figlio, Paola invece antepone l’amore di Dio a ogni legame terreno.

Ma nell’immagine di queste due donne si riflettono anche concezioni diverse della perfezione cristiana: per il monaco fuggiasco, profeta e rivoluzionario, l’alterità radicale tra cristianesimo e mondo impone il supremo sacrificio degli affetti più cari, per il vescovo di Ippona, impegnato nella guida pastorale di una comunità di fedeli, il mondo è, sì, immerso nel peccato, ma esso va convertito e sacralizzato. Questi due esempi, che risalgono alla fine del IV secolo, nella loro pregnanza simbolica, avranno un peso determinante nella storia della santità femminile e rappresentano una sorta di prisma per misurare i comportamenti di altre donne che, in contesti ormai mutati, dovranno confrontarsi con i tentativi di fondare su nuove e diverse categorie l’esperienza fondamentale della maternità. Il nodo problematico già evidenziato nel cristianesimo antico torna infatti a riproporsi nel Medioevo, che appare segnato da una ambivalenza irrisolta, tra rifiuto e accettazione del ruolo materno. Se alla donna viene assegnato un compito decisivo nella trasmissione dei valori cristiani, in molti testi il rapporto con i figli viene percepito come un ostacolo insormontabile al pieno esercizio della vita religiosa, che impone il distacco da ogni affetto terreno.

 Questo tema segna in profondità anche la riflessione francescana, dove trova degli sviluppi inediti: le grandi sante del Duecento, laiche e penitenti legate all’ordine dei Minori, sembrano infatti raggiungere le soglie estreme della “indifferenza mistica”. Si viene così a sapere dal processo di canonizzazione di Elisabetta d’Ungheria che questa nobile signora non solo si spogliò di ogni regale insegna per vivere povera tra i poveri, ma chiese al Signore di liberarla dall’amore “smisurato” che provava per i suoi bambini, e non esitò ad allontanare da sé il figlio ancora piccolo, per non trascurare a causa sua il servizio di Dio. Secondo l’agiografo fra Vito da Cortona, la vedova fiorentina Umiliana dei Cerchi non si preoccupava se i suoi figli si ammalavano, e anzi preferiva che morissero conservando intatta la propria innocenza, piuttosto che macchiarsi di qualche peccato. Margherita da Cortona, invece, restò impassibile quando ebbe notizia del probabile suicidio del suo ragazzo, che lei aveva trascurato per dedicarsi alle opere di carità e assistenza nell’ospedale del borgo toscano. Ma il vertice venne forse raggiunto da Angela da Foligno, che nel Memoriale rese grazie a Dio per averla liberata da marito e figli, ostacolo alla sua scelta penitenziale.

 Come vanno intese queste testimonianze sconvolgenti? Come interpretare la eccezionalità quasi disincarnata di queste donne, il loro rifiuto eroico della normalità degli affetti famigliari e delle occupazioni domestiche? Nel tema agiografico della “disaffezione materna” storici e antropologi hanno letto la spia di un malessere profondo nei confronti di una condizione femminile soffocante e oppressiva, quasi una forma di ribellione rispetto alla univocità del destino imposto dall’ordine sociale, da un sistema di potere patriarcale che in qualche misura cristallizzava la donna nel ruolo fisiologico della riproduzione. Con la castità e la penitenza, le sante compivano una scelta di rottura e di libertà, che le restituiva alla profondità e dignità della loro intima essenza spirituale. Queste istanze sono certamente presenti, ma si tratta di una spiegazione insufficiente a comprendere il progetto di vita abbracciato dalle mistiche francescane.

In realtà, con un letteralismo e una radicalità disarmante, esse facevano propria la lezione del loro beatissimo padre, di Francesco itinerante, povero, nudo e sacrificato. Aveva lasciato la sua famiglia, rinunciato ai privilegi, spezzato la sequenza genealogica, rotto le alleanze del sangue, per aprirsi a uno spazio di amore illimitato e assoluto, sciolto, che era quello dell’incontro con Dio e con tutti gli altri uomini, senza differenze. Si può anzi osservare che in questa scelta le sante donne erano andate oltre Francesco, che aveva abbandonato la famiglia, non addirittura i suoi stessi figli.

Non si trattava comunque di un rifiuto della maternità, quanto piuttosto di conferire a questa esperienza essenziale un significato e un valore diverso, come il padre serafico aveva scritto nella Lettera ai fedeli: «E su tutti gli uomini e tutte le donne che si comporteranno così e persevereranno sino alla fine si poserà in pace lo Spirito del Signore e farà in essi la sua abitazione e la sua casa. E saranno figli del Padre celeste, di cui fanno le opere. E sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo suoi sposi quando l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo mediante lo Spirito Santo; siamo suoi fratelli quando facciamo la volontà del Padre suo che è nel cielo; siamo madri sue quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo con l’amore e una coscienza pura e sincera, e lo generiamo con le azioni sante che devono splendere per gli altri come un esempio». In questo modo Francesco apriva il tema della maternità ai più larghi orizzonti della parentela divina. (Alessandra Bartolomei Romagnoli - docente di Storia della vita religiosa)


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