Francescanesimo: La minorità del Dio biblico
di Domenico PaolettiCon il numero di ottobre si è aperta la rubrica su La minorità - attualità inattuale che vuole approfondire, nei limiti anche di spazio della nostra Rivista, l’elemento che costituisce e maggiormente caratterizza lo stile di san Francesco e della sua fraternitas almeno agli inizi.
Dopo aver introdotto nel numero scorso il tema, che sfida e appassiona proprio per la sua ‘attualità inattuale’, in questo numero ci soffermiamo sulla minorità del Dio della rivelazione biblica.
La rivelazione di Dio, come sappiamo, avviene nella storia e ha le sue mediazioni umane: la Scrittura, la Chiesa e il magistero sotto l’azione dello Spirito. Oltre ad essere storica, la rivelazione di Dio – sorgente e modello della vera “minorità” - si manifesta secondo uno stile progressivo, e ha il suo compimento e il suo esempio supremo in Gesù Cristo.
Gesù è il Rivelatore di Dio agli uomini e dell’uomo a se stesso: la minorità che vediamo risplendere in lui è un cammino di rivelazione, con un inizio, uno svolgimento e un compimento nel Mistero pasquale. È il centro irradiante che illumina con la sua luce la vita di Francesco d’Assisi.
Innanzitutto, consideriamo la parola. La minorità è quasi un neologismo (comincia proprio con Francesco, il quale comunque non usa l’astratto “minorità”, ma solo il più concreto e personale “frati minori”), non compare dunque nella Bibbia; ma è profondamente biblico il suo contenuto. Nella Sacra Scrittura il senso della minorità va compreso nel vasto campo di significati che si collegano alla “povertà”, nelle sue varie declinazioni: significa non avere - non potere - non contare, significa vulnerabilità, debolezza, umiltà; e invisibilità, irrilevanza, sottomissione, mancanza di difesa …
In realtà anche i testi biblici tendono alla concretezza, e di solito non parlano di povertà, ma di poveri, dando al termine diverse risonanze secondo i contesti. La Bibbia distingue chiaramente la povertà come fatto sociale dalla povertà come dimensione spirituale.
Nei testi più antichi del Primo Testamento, in una visione fondata sulla “retribuzione”, la povertà è considerata sempre come un male, anche come una maledizione di Dio; gradualmente giunge a venir considerata, specialmente dai profeti - che contestano proprio la teoria della retribuzione - come offesa al povero e frutto di sistemi iniqui e oppressivi. Anche dal punto di vista della minorità l’Esodo è l’evento fondante e rivelativo: Dio stesso interviene e “si fa minore”, anche se agisce con risolutezza e forza, per difendere i minori (stranieri poveri, oppressi, schiavi): Dio guarda, ascolta un popolo senza patria oppresso dal faraone d’Egitto, si fa suo difensore e liberatore.
La povertà-minorità nel progredire della riflessione biblica, e dopo l’esperienza destabilizzante dell’esilio, diviene sempre più l’atteggiamento degli anawim: i poveri in senso sociale e soprattutto spirituale, liberi da idolatrie e false sicurezze terrene, che ripongono solo nel Signore la loro speranza. Nell’ebraico biblico esiste una sola parola per esprimere ‘fede’, ‘speranza’ e ‘attesa’. Così si va delineando una povertà-umiltà-minorità propria del vero credente, che poggia sul Signore, lontano dall’autosufficienza e dall’orgoglio. Aspetti importanti anche nello stile di Francesco, che ricerca la minorità per vincere l’orgoglio nelle sue molteplici manifestazioni, e la violenza che ne deriva.
Nell’Antico Testamento va emergendo la minorità come verità dell’amore di Dio, che non solo guarda i poveri, ma vive una logica povera. In Gesù Cristo, ‘rivelatore’ e ‘rivelato’, Dio si fa povero-minore fino alla morte di croce. Gesù Cristo esprime la logica della kénosis (=abbassamento, svuotamento), la minorità più sorprendente e sconvolgente, che ci apre sul cuore stesso di Dio-Trinità: ogni Persona divina è tutta per l’altra e riconosce l’altra come più importante di sé.
Domenico Paoletti
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