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Francesco davanti ad un malato terminale

di FIlippo Sedda
Credit Foto - Caravaggio

Uno dei maggiori tabù dell’uomo del nostro tempo è certamente la morte. Essa solleva interrogativi inquietanti, con cui il più delle volte rinunciamo a confrontarci e la nostra vita scorre come se “questa” non ci appartenga, con l’illusione che così la morte possa essere sconfitta, esorcizzata.

Il rapporto con la morte nel medioevo era molto più sereno, in quanto essa faceva normalmente parte della vita, essa si incontrava abitualmente nel vissuto quotidiano, anche perché era più facile morire, per una malattia, una guerra, una carestia, etc. Francesco di Assisi arriva a chiamarla “sorella” e proclama nel suo Cantico di frate sole di temere molto più la morte spirituale (la seconda morte) che quella corporale.

Forse ci è capitato qualche volta di incontrare un malato terminale o persino di doverci accostare quotidianamente a un parente che lotta con una malattia, che magari non riusciamo neppure a chiamare per nome: qui ci siamo scontrati con tutta la nostra inadeguatezza e impotenza creaturale, incapaci di trovare delle risposte, persino stentiamo a rivolgerci e rapportarci con questi fratelli e sorelle, quasi condannandoli ad un’emarginazione relazionale e sociale.

Facendo uno sforzo di immaginazione, proviamo, dunque, a chiederci come Francesco d’Assisi oggi si sarebbe comportato con un malato terminale. Nella vicenda biografica del Poverello l’esperienza che più si avvicina a questa circostanza è il suo incontro con i lebbrosi. Essi rappresentano per il suo tempo l’emarginato sociale e relazionale, esclusi dal consesso civile in aree periferiche a loro dedicate e tenuti a distanza per paura del contagio persino dal suono di una campanella, che doveva precedere il loro arrivo. Francesco è atterrito dall’incontrarli e prova ribrezzo fisico per la puzza che emana dalle loro piaghe purulente.

Il cambiamento di Francesco passa per un percorso di scoperta delle sue paure e di accettazione degli interrogativi non risolti, che lo condusse a vincere se stesso, le sue paure e il suo senso di umana inadeguatezza: spoglio di tutto con il suo solo essere andò incontro ai lebbrosi fino ad abbracciarli e a curare le stesse piaghe che prima detestava. Non parole ma silenzi, non risposte ma gesti che dicono presenza, vicinanza, legami.


FIlippo Sedda

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