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SULL’ATTUALITA’ DEL PENSIERO ECONOMICO FRANCESCANO

Il Professor Zamagni fa un'attenta analisi dell'aiuto francescano all'economia

di Stefano Zamagni

Due sono le novità che il francescanesimo introdusse nell’orizzonte culturale del XIII secolo. La prima è che se usare dei beni e delle ricchezze è necessario, possedere è superfluo. Il che porta a concludere che “grazie alla povertà, poteva essere più facile usare e far circolare la ricchezza”.

La seconda novità è che, se si vuole che i frati possano esercitare con continuità la virtù della povertà, è necessario che questa sia sostenibile, cioè possa durare nel tempo. Ecco perchè si ricorre all’aiuto di laici - amici spirituali dell’Ordine - cui affidare la gestione del denaro. L’idea che una qualche divisione funzionale del lavoro sia necessaria prende così a diffondersi.

A partire dal 1241, anno della prima Esposizione della Regola, l’analisi sulla povertà dei frati si allarga alla società intera. Gli uomini di cultura guardano ai “contenuti profondamente economici della scelta pauperistica di Francesco e dei suoi seguaci” non più soltanto come via verso la perfezione individuale in senso cristiano, ma come “un ordine economico-sociale della collettività nel suo insieme”.

A Bonaventura da Bagnoregio, Ugo di Digne e John Peckham il merito di aver formulato il principio secondo cui la sfera economica, quella governativa (della civitas ) e quella evangelica, “sono tre gradi differenti ma integrabili di un’organizzazione della realtà”. Se questa integrazione si realizza, essa genera frutti copiosi, così che ciò cui i poveri volontari rinunciano può essere impiegato per i poveri non volontari, fino alla loro tendenziale scomparsa.

Ebbene, così come il pensiero e l’opera del francescanesimo svolsero un ruolo determinante nel passaggio dal feudalesimo alla modernità, altrettanto decisive esse appaiono oggi nell’attuale passaggio d’epoca dalla modernità alla post-modernità. Concetti e categorie di discorso come bene comune, fraternità, dono come gratuità (e non come regalo), primato del bene sul giusto – parole chiave del lessico francescano – rivelano nell’attuale temperie storica tutta la loro cogenza e salienza. Non c’è da meravigliarsene: quando si prende atto della crisi di civilizzazione che incombe si è quasi sospinti a guardare con simpatia alla vicenda umana di Francesco per il quale l’inizio di una nuova vita, a livello anche sociale ed economico, è in una capacità di sguardo diversa sulla realtà: “Ciò che mi pareva amaro mi fu convertito in dolcezza dell’anima e del corpo”.

La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità, parola già presente nella bandiera della Rivoluzione Francese, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. E’ stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi.

La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi.

Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è necessariamente vero. E’ agevole comprendere come l’accoglimento della prospettiva della fraternità abbia ricadute forti sul modo di concepire oggi il lavoro e la sua organizzazione. Nel Novecento finisce il lavoro industriale ford-taylorista che aveva messo fine al lavoro artigianale, conosciuto da sempre. (Il lavoro artigianale si caratterizza per l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere). Insieme al lavoro industriale finisce anche la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno delle necessità”. Sorge dunque l’esigenza di pensare la libertà del lavoro e di reinterpretare l’insieme dei concetti che la modernità aveva connesso al tempo di non lavoro, quali ozio, riposo, gioco. Cosa comporta la nuova preponderante forma del lavoro che oggi si è affermata? La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui discende il diritto–dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile felicità. Una civiltà dell’eudaimonia postula una condizione di vita arricchente, capace di corrispondere all’esigenza della fioritura umana.

Da dove partire per conseguire un tale obiettivo? Dal lavoro. Non però attraverso il lavoro visto come strumento produttivo, ma dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza. Lo sviluppo integrale delle capabilities non va cercato dopo il lavoro, una volta soddisfatte le necessità di base. L’essere umano incontra la sua umanità mentre lavor a. L’eudaimonia lavorativa è dunque nel riconoscimento e nella valorizzazione di specifiche capacità che caratterizzano una vita lavorativa degna di essere vissuta. ​ Interrogarsi oggi sulla natura del lavoro e sul suo senso profondo è il contributo maggiore che si possa dare alla soluzione di quella piaga sociale che è la disoccupazione, soprattutto giovanile.


Stefano Zamagni

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