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Erri De Luca, Condannateci e salvate il pianeta

Su Repubblica, l'appello dello scrittore ai giovani “Inchiodate potenti e adulti alle loro responsabilità”

Credit Foto - Pam Patterson da Pixabay

I terremoti, le eruzioni manifestano in superficie il subbuglio di forze che scuotono la crosta terrestre. Il vulcano della mia infanzia napoletana era il certificato di residenza provvisoria messo a oriente del golfo. Appartengo a una comunità abituata a vivere sotto intimazione di sfratto.

La bellezza abbagliante del suo panorama è opera di immense catapulte dal basso verso l’alto che sconvolgono periodicamente la faccia del suolo. Altrove la terra ha cambiato i connotati innalzando montagne dal fondo del mare. Imparavo che la bellezza era effetto di scatenamento di energie compresse, era profondità rivelata. Nella gran tela La fucina di Vulcano, Diego Velázquez dipinge la visita di Apollo alla forgia di fabbro del dio preposto al fuoco. Esposto al museo del Prado a Madrid, il quadro sta a immagine simbolica della mia città di origine.

La superficie della terra è viva, il regno minerale non è inerte, la sua stesura è in opera continua. Ci sono popoli che hanno imparato a ballarci sopra senza crollare sotto le spallate. Da noi si continua a chiamare col nome di emergenza la più regolare manifestazione del sottosuolo. Le manifestazioni di ordinaria frequenza da noi si chiamano emergenze per incapacità di gestione. Abbiamo nominato così anche la raccolta dei rifiuti. Da noi si spendono pubbliche risorse colossali per l’acquisto di aerei da combattimento, come se dovessimo difenderci da chissà quali attacchi dal cielo, mentre siamo sotto continuo scuotimento sotterraneo. Dovremmo rendere inespugnabili le nostre case contro i reali terremoti, non contro immaginari bombardieri.

Da noi la parola emergenza sta a copertura di pubblica incapacità di intendere e volere. Andrebbe avviata la misura dell’interdizione, che permette agli eredi di impedire la dilapidazione dei beni. In questo l’Italia è un caso clinico, ma l’incapacità dei pubblici poteri si manifesta su scala mondiale. Perciò si sta agitando il moto generale di una gioventù consapevole della fallimentare gestione a governare gli sconvolgimenti del clima terrestre. Terremoti, eruzioni: contro il sottosuolo le misure possono essere difensive, ma nei confronti di scatenamenti di cicloni, inondazioni, incendi di inaudita potenza, di disastri ambientali indotti da lavorazioni e loro scarti, urge un’offensiva generale. Per questo si sta muovendo una nuova gioventù che reagisce a questo futuro apparecchiato come una valanga su un pendio.

Il futuro per una gioventù è la terra promessa, ma è stato trasformato in officina di catastrofi. Gli incendi in Australia non riguardano un accidente di stagione. La loro forza di devastazione non è profezia differita, ma disfacimento in corso. I pompieri non bastano più, anche loro circondati dalle fiamme. Il cielo affumicato dell’Australia annuncia l’alba di un decennio cruciale per il pianeta. Mi vengono in aiuto i versi di Nazim Hikmet: «Non vivere su questa terra da estraneo...».

Nel centro della poesia scrive: «Senti la tristezza del ramo che si secca/ di una stella che si spegne/ dell’animale ferito in agonia/ ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo». Le immagini del gennaio australiano, di un deserto che divora e avanza, trasmettono insieme alla tristezza il sentimento di responsabilità dell’essere umano. Rispetto a quello scritto da Hikmet, il dolore è aggravato dalla consapevolezza di averne colpa. Il primo ministro australiano in visita ai luoghi del disastro si vede negare la stretta di mano: che se le tenga inutili in tasca.

(...) La versione integrale nell'edizione odierna di La Repubblica

Erri De Luca - La Repubblica



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