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Jorit: 'Le mie opere sono un sì ad altro'

L'intervista al più famoso street artist italiano

di Domenico Marcella
Credit Foto - @lagentedinapoli

Ne ha fatta di strada dai tempi in cui, da bambino, già intravedeva su ogni chilometro di cemento che gli capitasse a tiro una pagina bianca sulla quale apporre il proprio “sì”. Jorit ha mosso i primi passi in una Napoli di periferia, figlia di nessuno ma piena di energia e idee, prima di diventare il più famoso street-artist italiano. Merito dello sfrenato talento e di quei visi mastodontici – sempre solcati dagli inconfondibili graffi di appartenenza alla “Human Tribe” – che hanno introdotto nello spigoloso perimetro della street-art una più evoluta poesia del ritratto, distante dai profili nobili che abitano nel corridoio vasariano. Se è vero che in arte non si inventa più niente ecco che Jorit, fra memoria e modernità, punta i riflettori sugli Esseri umani e sulle loro conquiste sociali. È il caso di Martin Luther King, da poche settimane “innalzato” sul quartiere partenopeo di Barra: «Il murales è stato finanziato dalla “Fondazione Banco di Napoli” con un progetto dalla cooperativa “Il tappeto di Iqbal”, da anni impegnata nel recupero dei ragazzini a rischio».

Martin Luther King ha saputo dar voce agli emarginati. Facile intuire perché tu lo abbia scelto.
«Perché ha lottato proprio per il riscatto delle periferie e della marginalità. In un quartiere come Barra, abbandonato dalle istituzioni, forse sono proprio i simboli di speranza che servono. Non mi sognerei mai di pensare che questa sia una soluzione, certo, perché dipingere la facciata di un palazzo non risolve nulla. Però può rappresentare uno stimolo. Martin Luther King è immortale, non ha mai smesso di incitarci a marciare, a organizzaci, a ragionare. È ancora un simbolo universale che rappresenta al meglio la lotta che proprio a Napoli andrebbe fatta».

Sei sempre stato “in the ghetto”, vicino alle periferie della tua città.
«Sì, perché sono cresciuto in periferia. A 13 anni i miei punti di aggregazione erano la stazione e il deposito dei treni. In quei luoghi ho visto per la prima volta i tag, i letter e i bombing che sono i cardini del graffitismo. Non ho potuto fare a meno di appassionarmi a questa strabiliante forma di espressione, che continua a far parte della mia vita».

Arrivando così a consegnare alla Storia dell’Arte contemporanea opere importanti. Il San Gennaro dipinto su un palazzina popolare a Forcella, per esempio.
«Gennaro ha il voto di un lavoratore, di un mio amico carrozziere. Abbiamo adottato il modus operandi di Caravaggio, che santificava e rendeva eterne le espressioni del popolo. Ho voluto attraverso quell’opera santificare i lavoratori, dandogli la dignità che meritano».

Anche il Maradona che governa San Giovanni a Teduccio ha una chiave di lettura diversa da quel che banalmente si potrebbe attribuire al culto calcistico.
«Be’ sì perché Diego è un omaggio alla persona più che al campione che – nonostante le origini umili – è riuscito a diventare il più grande calciatore di tutti i tempi. Oltretutto, dettaglio non trascurabile, continua a difendere gli interessi dei ceti più deboli».

Non posso non chiederti anche di Tupac Shakur.
«Una figura che mi sta a cuore perché ha legato all’idea di successo personale quella del riscatto collettivo. Tupac era un rapper atipico: un grande amante di Shakespeare e della poesia in generale che, attraverso la qualità e la musicalità dei suoi testi, ha introdotto nel dibattito culturale i problemi sociali che affliggevano la società – razzismo, emarginazione sociale, lotta contro qualsiasi tipo di oppressione – senza mai risultare banale e scontato. Per un anno si è chiamato Lesane Parish Crooks, finché nel 1972 sua madre – un’attivista politica, legata al movimento delle Black Panther – gli cambiò il nome ispirandosi a quello di Tupac Amaru e di Tupac Amaru II, rispettivamente ultimo re degli Inca e leader della rivolta degli indigeni del Perù contro i colonizzatori spagnoli nel Settecento. Persone come Tupac Shakur e Diego Maradona sono per me fonti di ispirazione».

Hai reso omaggio anche a dei modelli importanti della nostra società civile. Fra tutti, Ilaria Cucchi.
«Sai, ho avuto un’esperienza molto simile a quella di suo fratello Stefano. A 18 anni ho subìto un forte pestaggio mentre stavo dipingendo per strada. Come Ilaria ha abbondantemente ribadito, Stefano ha sbagliato; ma non ci si può accanire con ferocia su una persona fino a togliergli la vita. È una battaglia di civiltà che non potevo non appoggiare».

Sei stato fermato a Betlemme, mentre davi gli ultimi ritocchi al ritratto di Ahed Tamimi, l'attivista palestinese finita in carcere per aver schiaffeggiato due soldati dell'Israel Defense Forces.
«Sì, che storia… Stavo lavorando al murale da circa una settimana, sulla striscia di separazione fra la Cisgiordania e i territori occupati da Israele. L’esercito israeliano mi ha preso in territorio palestinese per portarmi in Israele. C’è stata così una violazione del territorio straniero, è vero, ma da parte dell’esercito israeliano, non certo da parte mia. Per fortuna, sono stato rilasciato dopo un soltanto un giorno di detenzione».

Il tuo è un mondo a colori, affollato da una carrellata di eroi positivi. Usi la bomboletta anche per sensibilizzare, con recidività, sull’autismo.
«Assolutamente, perché non si può pensare di creare una società dello scarto. Non si possono annichilire persone considerate non produttive. Tutti possono e devono contribuire al progresso della società. È un concetto basilare di civiltà».

La centralità del volto. Perché questa scelta?
«La nostra ricerca si concentra proprio sulle emozioni che trasmettono i volti. Lo sguardo è spesso l’essenza più autentica dell’Essere umano. La scienza moderna, inoltre, ha ormai abbondantemente dimostrato come la struttura psichica dell’uomo sia in stretta relazione con la fisionomia del volto. Non esiste niente di più espressivo di un volto».

Le tue opere non sono un “no" ma un “sì”.
«Non penso in negativo, è vero. Le mie opere sono un “sì”ad altro. Il “no” non mi piace perché si lega sempre a un’idea ribelle di negazione. Mi piace affermare il buono in questo Mondo. Negare in toto vorrebbe dire non dare importanza alcuna allo stato sociale, alle conquiste sociali, e alle lotte per i più ovvi diritti. Il mio “sì” è un procedere verso un’idea di progresso, e fa riferimento alla filosofia hegeliana del prendere il positivo e svilupparlo al meglio».

Ma sempre e comunque con una bomboletta fra le mani, vero?
«Certo. Ho quasi 30 anni, e nonostante abbia superato di gran lunga le mie ambizioni, non riesco a immaginare la mia vita senza la bomboletta in mano».


Domenico Marcella

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