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Redazione

UN TOCCO DI ISRAELE A NEW YORK

La strada del quartiere ebreo ortodosso è affollata: gli uomini dalla lunga e folta barba, con i boccoli arricciati ai lati delle tempie che scendono sulle spalle, camminano spediti nei loro cappotti neri. Alcuni hanno in mano un cilindro che contiene la preziosa Torah, il testo sacro del popolo ebraico; altri passeggiano con le loro mogli delle cui facce avvolte nei foulard dai colori non troppo vivaci, intravedo solo in parte i delicati lineamenti.<br><br> Poi bambini; biondi, bruni, rossi, occhi azzurri come il cielo limpido del più freddo inverno, occhi neri come le notti senza luna... Corrono, si divertono, ridono, piangono come tutti i bambini di questo mondo.<br><br> E ai lati delle strade negozi dalle scritte ebraiche, ristoranti rigorosamente kosher, librerie con testi yiddish, rivendite di oggetti sacri che espongono in vetrina enormi menorah. Ogni luogo, ogni angolo è impregnato di cultura e tradizione ebraica come potrebbe essere un quartiere di Gerusalemme o di Tel Aviv.<br><br> Ma qui non mi trovo né a Gerusalemme, né a Tel Aviv; anzi, per la verità Israele stesso è lontano migliaia di chilometri. Questo piccolo spaccato di vita ebraica si consuma quotidianamente in una delle metropoli più cosmopolitane del mondo: New York, nel piccolo quartiere di Williamsburg, a Crown Heights, Brooklyn.<br><br> Qui, negli anni Trenta e Quaranta, migliaia di ebrei ashkenaziti giunsero dagli shtetl dell’Europa Orientale o dalle città della Germania, dall’Italia, dalla Francia, per sfuggire alle persecuzioni naziste e fasciste, portando con sé tutto il bagaglio culturale e religioso ad essi appartenente. A poco a poco Crown Heights si trasformò in una sorta di Little Israel. Poverissimi e sradicati dai loro paesi natali, gli ebrei di New York sono in breve tempo riusciti a divenire una delle maggiori potenze economiche e scientifiche non solo della città, ma del mondo intero. Merito soprattutto della loro coesione e della tradizione di esperti banchieri tempratisi nel corso dei secoli.<br><br> Anche se le comunità ebraiche a New York sono diverse e sparse per tutte le cinque municipalità della metropoli, solo il quartiere di Williamsburg è riuscito a mantenere un’identità propria ben precisa, grazie sia all’ubicazione geografica in cui viene ad essere situato, decentrato rispetto alla Downtown, sia al forte senso di appartenenza religiosa che lega tra loro i componenti della comunità e che impedisce ad estranei di interagire col loro delicato mondo. Tutto questo non ha impedito, però, che sorgessero gravi problemi di convivenza con altri gruppi etnici, specie caraibici, sfociati nel 1991 in veri e propri confronti violenti.<br><br> Oggi tra i trentacinquemila ebrei ortodossi e i novantamila caraibici, la situazione rimane tesa, ma le due comunità hanno imparato a rispettare reciprocamente i propri territori. A Crown Heights si vedono bambini ebrei giocare con bambini ebrei e bambini caraibici giocare con bambini caraibici a pochi metri gli uni dagli altri senza che i due gruppi vengano ad interagire in alcun modo. Addentrarsi a Crown Heights è come effettuare un viaggio in Israele: qui è ancora possibile trovare, negli angusti anfratti dei negozietti religiosi, i “certosini” ebrei, che scrivono lo Shemah Israel, la professione di fede che viene poi incastonata nelle mezura, piccoli contenitori posti sugli stipiti delle porte d’entrata di ogni casa ebrea, e nei tefillim che i fedeli portano sempre con loro annodandoseli attorno al braccio e sulla fronte nell’ora della preghiera.<br><br> Ed è ancora qui, a Crown Heights, dove le feste ebraiche continuano a seguire il loro antico rituale e dove i ritmi di vita sono scanditi dall’alternarsi del sole e della luna, riuscendo a collimare gli impegni economici e sociali richiesti da una società sempre più frenetica come quella statunitense.<br><br> E mentre la maggior parte dei newyorkesi continua la loro vita mondana e dissipata anche dopo il tramonto, a Williamsburg tutto si ferma e tace.<br><br> Anche se il centro della vita degli ebrei ortodossi del quartiere rimane la sinagoga dove veniva a pregare il rabbino Lubavitch, ogni famiglia continua a testimoniare la propria fede anche al di fuori dei templi. Il pane viene ancora fatto in casa per evitare contaminazioni dovute a prodotti o lavorazioni non conformi ai principi espressi dalla Torah; ai bambini non vengono tagliati i capelli sino ai tre anni; viene praticato il pidion, il riscatto dei primogeniti maschi, lo shabbat è rispettato scrupolosamente ogni settimana seguendo gli appositi rituali, così come tutte le celebrazioni annuali, dalla Pesah (la Pasqua), al Rosh Ha Shanah (il capodanno); dal Kippur (l’espiazione) al Sukkot (la Festa delle Capanne).<br><br> E allora non sorprende che quando, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’ONU discuteva su quale territorio si dovesse assegnare agli ebrei per farne una loro patria, ci fu chi propose di ritagliare per loro una fetta degli Stati Uniti d’America. <br><br> Piergiorgio Pescali

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