8 marzo. La lunga resistenza delle donne siriane profughe in Turchia
Lo sguardo basso, come assente, mentre raccontano la loro Siria e i loro figli che non ci sono più. Della famiglia Mariaminy, che da cinque anni abita a Killis, città al confine turco-siriano, a pochi chilometri da Aleppo, sono rimasti i nonni, originari di Tal Rif’at, che vivono insieme ai tre nipoti, Mohamed, Lama e Maria.
Tre dei loro figli sono morti e uno è in carcere. La figlia, invece, li ha abbandonati, affidando alle loro cure la piccola Maria. L’anziano era un poliziotto e fino a qualche tempo fa riusciva a farsi mandare la pensione tramite un amico rimasto in Siria, mentre oggi hanno solo l’aiuto elargito tramite la Mezza Luna Rossa agli oltre tre milioni di profughi siriani in Turchia. Il piccolo Mohammed si siede vicino alla nonna, con fare rassicurante. Sembra più grande dei suoi dieci anni e sogna di diventare ingegnere.
I nonni sopravvissuti rappresentano per Mohamed, e per molti orfani, l’unico collegamento con il loro passato e con la Siria. Quella di Mohamed è una generazione a rischio, cresciuta troppo in fretta, senza aver mai conosciuto la dolcezza dell’essere bambini. Forse non ha piena coscienza di quello che è successo in Siria, ma come molti altri orfani siriani, si trova a subirne le conseguenze.
Nessuno si illude di poter tornare presto in Siria e quindi si cerca di affrontare al meglio la nuova vita. In questo sono soprattutto le donne a essersi attivate, grazie a una grande forza di volontà e al sostegno di enti internazionali. A Killis, Gazientep e Hatay, ma anche in Siria, alla periferia di Hama e Idlib, opera da due anni la Woman Support Association (WSA), un’associazione che mira a dare alle donne siriane gli strumenti per diventare pienamente autonome.
Organizzano corsi di avviamento professionale e formazione su diritti umani e pari opportunità. Tra i loro obiettivi c’è quello di costruire un futuro migliore per le donne siriane e agevolare la loro integrazione nel contesto turco, ma anche favorire la ripresa del percorso di studi per le donne che desiderano diplomarsi e laurearsi. Sono impegnate anche per porre fine alla piaga dei matrimoni precoci e della violenza di genere. Sono indipendenti, neutrali, hanno un approccio laico e hanno fatto propri i valori del Diritto umanitario internazionale.
Shireen Mouhammad è la “procurement officer” e lavora a Gazientep: ha una laurea in economia e commercio ed è curda, originaria della martoriata Kobane. «Sono fiera di essere quella che sono oggi» racconta con la sua voce delicata. «Quando i miliziani di Desh hanno fatto irruzione a casa nostra, nel 2015, ci siamo buttate dalla finestra usando delle lenzuola come corde». Nelle parole di Shireen c’è tanto dolore, ma i suoi grandi occhi neri sono pieni di speranza: «In Siria per noi curdi non c’erano diritti, per questo molti di noi hanno partecipato alle rivolte. Oggi che siamo qui non c’è più differenza tra arabi e curdi. Siamo tutti uguali, abbiamo tutti le stesse ferite e la stessa voglia di ricominciare».
Shireen e i colleghi della WSA, prevalentemente donne, sono giovani, provengono da contesti diversi, ma hanno gli stessi sogni. Leyla Keshkia è originaria di Yabrud, alle porte di Damasco, e il suo ruolo nell’associazione è di “meal assistant”: segue gli orfani e le vedove da loro sostenuti. In Siria, con l’inizio della guerra, Leila si era impegnata nel soccorso sanitario e ha collaborato con Medici senza frontiere. Sul telefonino ha foto di quando era in Siria. Mostra alcuni lavori che aveva realizzato a Yabroud con amici cristiani: «A Yabroud le chiese e le moschee erano aperte per tutti e anche nel periodo delle manifestazioni pacifiche eravamo insieme, con un unico sogno, quello di una Siria migliore per tutti i siriani», spiega Leyla. Ahlam Milaji è la presidentessa dell’associazione Zenobia, che a Gazientep collabora con la WSA e offre alle donne formazione a domicilio in ambito sanitario e legale, ma anche percorsi di contrasto all’analfabetismo negli adulti e nei bambini.
Mona Suilmi è la direttrice del Wsa a Killis. «Tutti riconoscono, che hanno bisogno di un sostegno umanitario, ma non tutti riescono ad ammettere la necessità di un sostegno psicologico per affrontare i propri traumi», racconta. «Noi li aiutiamo a contattare esperti che li affiancano nel loro percorso». A Killis operano anche altre associazioni, come Al Resala, di Dima Barakat, che offre corsi di formazione per parrucchiere, estetiste, sarte e ricamatrici, ma anche per la preparazione di prodotti alimentari. In circa due anni di attività, sono ben seicento le donne che si sono rivolte al suo centro, che ospita anche una palestra. Tra le iscritte alla Wsa c’è Lubna Helly, che in Siria si occupava di diritto di impresa, e che oggi ha aperto “Beit al-Chocolat”, una piccola bottega per la produzione di cioccolato e Jehan Sayediss, che è una scrittrice premiata anche con il Boston Writers Room Price nel 2017.
Storie di riscatto, ma anche storie di disperazione. Al pian terreno di una vecchia casa Samar cresce da sola i suoi quattro figli, il più piccolo con la sindrome di Down. È originaria di Hreitan e da tre anni è arrivata in Turchia. Il marito ha tentato di attraversare la frontiera illegalmente, e i soldati turchi gli hanno sparato. «Con lui c’era un amico», racconta tra le lacrime. «Ha giurato che mio marito era stato colpito solo alle gambe, invece quando me lo hanno fatto vedere era morto, con un lungo taglio sul petto. Nessuno mi ha detto cosa gli avevano fatto. Voglio verità e giustizia».
Molti, tra i profughi al confine, in Siria erano avvocati, come Zahraa Omar, che con altri legali oggi sta studiando le conseguenze dell’entrata in vigore della cosiddetta legge numero 10 – approvata dal governo di Damasco – con particolare attenzione alle sue implicazioni per i siriani profughi. Amal Alnasan, invece, è fondatrice di Amal Heading and Advocacy Center, che fornisce sostegno alle donne e ai bambini vittime di violenza e tortura. Ha già aiutato oltre trecento donne.
Giustizia è una parola che per i siriani, dopo anni di guerra, sembra un sogno impossibile e per molti anche guardare avanti è difficile, soprattutto per i giovani che non hanno ancora i documenti in regola, che non hanno ottenuto la cittadinanza turca e che non possono proseguire gli studi o lasciare la Turchia. Ibrahim Zbibi, che vive a Istanbul, fa parte dell’associazione Syrian Association for Citizen’s Dignity che si occupa dei diritti dei siriani e della possibilità di ritornare nella propria terra.
Ibrahim porta nel cuore il lutto per tanti amici morti in Siria e proprio quel dolore motiva il suo impegno per una società che rispetti i diritti umani di tutti. C’è una luce nel suo sguardo, una speranza che arde ancora e che, invece, non si trova in Nour. Era un soldato di leva disertore e, quando è fuggito dalla Siria, si è impegnato in ambito umanitario. Poi il tempo della guerra si è fatto sempre più lungo e la speranza di tornare a casa è andata morendo insieme alla sua voglia di aiutare gli altri. Nour fatica ad adattarsi alla sua vita da profugo, accende una sigaretta dopo l’altra e ripete: «Mi aiuta a non pensare», ma la sua espressione triste in realtà racconta una storia diversa.
Asmae Dachan - Avvenire
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