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Ai Weiwei, Se la cultura nasconde il male

L'articolo dell'artista e attivista cinese sul New York Times, tra economia e democrazia a rischio

di Ai Weiwei - New York Times
Credit Foto - EPA/CLEMENS BILAN

Pubblichiamo un articolo del New York Times (dalla traduzione di La Repubblica, 15 gennaio 2020).

Lu Xun, il più grande scrittore cinese del XX secolo, creò un personaggio di nome Ah Q, che divenne adorato e al tempo stesso temuto dai cinesi perché esibiva spietatamente i difetti del “carattere nazionale” cinese: quando ad Ah Q veniva la scabbia sulla testa, vietava alle persone di pronunciare in sua presenza la parola “scabbia”, o qualsiasi altra parola che potesse in qualche modo evocarla; queste parole erano tabù, verboten.

Alcune settimane fa, a Berlino, ho ricevuto notizia di una causa che mi era stata intentata dall’impiegato di un casinò. La querela diceva che lo avevo chiamato “nazista” e “razzista” senza nessuna giustificazione reale. Sì, circa un anno fa avevo giocato a carte nel casinò di Berlino, a Potsdamer Platz, e alla fine della partita ero andato a mettere le mie fiches davanti allo sportello della cassa per convertirle in contanti.

L’impiegato, che aveva sui cinquant’anni, era placidamente seduto. Mi guardò, ma non mosse un dito. Poi, enunciando ogni parola distintamente, disse in inglese: «Dovrebbe dire per favore». Ero sconcertato. «E che succede se non lo faccio?». «Lei è in Europa, sa», mi fece l’uomo. «Dovrebbe imparare un po’ di educazione». Andai avanti: «Va bene, ma lei non è una persona che mi possa insegnare l’educazione». A quel punto si piegò in avanti. Mi fissò dritto e disse: «Non si dimentichi che io le do da mangiare!». Aveva alzato la posta. «Questo è un atteggiamento nazista», dissi io, «e un commento razzista».

Smisi di discutere e andai dal direttore del casinò. Dopo una breve indagine, mi offrì le sue scuse dettagliate e la cosa finì lì; o almeno così pensavo, finché non mi è arrivata la notifica della querela. Non so come andrà a finire la causa, ma è una questione di poco conto rispetto al tema che voglio affrontare.

L’impiegato del casinò aveva mascherato il suo pregiudizio etnico presentandolo come una questione di cultura: gli immigrati dovrebbero imparare la civiltà europea. Questa cosa mi ha fatto riflettere su tutte le altre occasioni in cui la “differenza culturale” è stata usata come eufemismo per lasciare libero sfogo al pregiudizio, allo schiavismo e al genocidio.

La Germania di Hitler? L’apartheid? La Bosnia? Il Sud degli Stati Uniti? Fin troppo spesso. Nel mondo di oggi, l’autoritarismo politico e la rapacità commerciale cooperano per sfruttare le “differenze culturali”. Lo si vede con la massima chiarezza nella simbiosi degli ultimi decenni tra le grandi aziende occidentali e la classe dirigente comunista in Cina: l’Occidente offre i capitali e le ambite tecnologie, mentre i governanti cinesi mettono a disposizione un’enorme forza lavoro, prigioniera, malpagata e senza tutele.

I politici occidentali per anni hanno sostenuto che la crescita del tenore di vita in Cina avrebbe prodotto una classe media che avrebbe chiesto libertà e democrazia. Che non sia avvenuto, ormai è evidente. L’élite cinese, ora molto più ricca di prima e mai così potente, può ridersela sotto i baffi di fronte agli occidentali e alle loro visioni di inevitabile democrazia. Invece è la democrazia occidentale, conquistata a caro prezzo, che è diventata vulnerabile.

Ma questo l’Occidente lo sa? I giovani democratici di Hong Kong cercano il sostegno delle democrazie mondiali. Sono sulla prima linea di quello che potrebbe diventare lo scontro più grande del XXI secolo. Il mondo occidentale non lo capisce che aiutarli non è una questione di carità, ma di autodifesa? Se guardano verso l’enorme area del Nordovest della Cina chiamata Xinjiang, i manifestanti di Hong Kong possono vedere che cosa succede quando il cambiamento architettato da Pechino viene applicato a pieno regime. Negli ultimi anni è stata portata avanti in modo sistematico una cancellazione della lingua, della religione e della cultura dei musulmani uiguri. Circa un milione di persone sono state spedite in “campi di rieducazione”, dove sono state costrette a condannare pubblicamente la loro religione e a giurare fedeltà al Partito comunista cinese.

Gli occidentali forse vedono lo Xinjiang come un luogo distante e misterioso, ma da alcuni punti di vista non è così esotico. Multinazionali come la Volkswagen, la Siemens, la Unilever e la Nestlé hanno fabbriche laggiù, le catene logistiche della Muji e della Uniqlo dipendono dallo Xinjiang e aziende come H&M, Esprit e Adidas usano cotone dello Xinjiang. Cosa c’è in questo posto remoto che lo rende così attraente?

Forse gioca un ruolo la presenza di una forza lavoro non bianca “culturalmente differente”? Nello Xinjiang, come nel resto della Cina, i padroni di Oriente e Occidente si sono scambiati benefici. La Cina e la Russia hanno dimostrato che l’eredità dell’autoritarismo comunista può unire le forze con il capitalismo predatorio, dando vita a nuove strutture politiche dalla forza spaventosa. Le democrazie mondiali non hanno ancora trovato un modo per affrontare il problema, anche se lo sentono che stanno perdendo terreno, o peggio ancora che stanno cominciando ad adattarsi. I valori democratici tradizionali iniziano a scomparire. Le tendenze economiche e politiche oltrepassano i confini nazionali e stanno distruggendo valori e ideali che le società umane hanno sviluppato nel corso di secoli.

So bene che la parola “nazista” è tabù in Germania, ma quando l’ho usata con l’impiegato del casinò non la intendevo come termine spregiativo, ma come un termine analitico generale: una cultura asserisce la sua superiorità, un’etnia la sua purezza e l’orda sottostante è non soltanto differente, ma inferiore, dev’essere guidata e se necessario governata con la forza. E dunque la schiavitù è giustificata. Negli anni 30 e 40 questo era chiamato nazismo. Oggi, in Germania, il tabù che circonda questo termine è molto forte, molto più forte del rifiuto di Ah Q di sentire la parola “scabbia”.

L’ipersensibilità dei tedeschi di fronte alla parola “nazista” non potrebbe nascere dal fatto che dentro di loro sanno che l’idea è ancora viva? La grande sfida che hanno di fronte il governo tedesco e gli altri governi occidentali è trovare un modo per uscire da questa orgia del profitto con la loro integrità morale intatta. Finora, a questo riguardo, abbiamo visto quasi soltanto una timidezza vile. Il nodo della questione non è l’ignoranza delle alternative morali, ma un difetto di volontà. Perseguire l’avidità? Fare quello che è giusto? Noi scegliamo timidamente la prima cosa. Quando i governi occidentali si renderanno conto che è in ballo la sopravvivenza della democrazia liberale, la bilancia potrebbe pendere dall’altro lato.

Traduzione di Fabio Galimberti © 2020 The New York Times


Ai Weiwei - New York Times

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