Bomba ecologica nel Nord Est: la mappa dei rifiuti radioattivi in Lombardia e Veneto
Uno scenario inquietante quello che emerge dal reportage di Gabanelli e Gorlani
Nel cuore produttivo del Paese c’è un rischio radioattivo poco noto e minimizzato. In Lombardia, soprattutto nel Bresciano, e in misura minore in Veneto, sono state fuse in fonderie e acciaierie fonti di Cesio 137, di Radio 226 e di Cobalto 60, arrivate quasi sempre dall’Est Europa.
Erano nascoste in involucri di piombo infilati dentro i camion di rottami, in modo da sfuggire ai controlli. Una volta finiti nei forni hanno contaminato gli impianti di abbattimento fumi, le polveri, i lingotti di acciaio e di alluminio. L’apice degli incidenti negli anni Novanta. Ma succede anche oggi. L’ultimo allarme l’agosto scorso alle acciaierie Iro di Odolo, in Valsabbia.
La più grande discarica radioattiva d’Italia
Nel Bresciano oltre 86mila tonnellate si trovano ancora dentro le aziende o in discariche realizzate senza l’isolamento del fondo. E così i veleni hanno raggiunto la falda sottostante. È il caso della discarica Metalli Capra di Capriano del Colle, la più grande discarica radioattiva d’Italia, con ben 82.500 tonnellate di scorie al Cesio 137 che dormono all’interno di un parco agricolo regionale costellato di vigneti. Un’altra discarica più piccola si trova alle porte di Brescia città, sempre dentro un parco urbano di recente costituzione: è l’ex Cagimetal, con 1800 tonnellate di scorie sempre contenenti Cesio.
In altri casi il materiale contaminato è rimasto dentro le acciaierie. Per evitare che incendi, terremoti o altre calamità inneschino un disastro ecologico, in diversi casi la prefettura di Brescia ha scelto come soluzione la realizzazione di bunker in cemento armato, dove stoccare polveri e tondini per due secoli, il tempo di decadimento del Cesio.
Il primo è stato realizzato all’Alfa Acciai di Brescia, dove nel 1997 venne fusa una partita di rottame proveniente dalla Cecoslovacchia e contenente Cobalto 60 e Cesio 137. Dentro ci sono oltre 500 tonnellate di materiale contaminato al quale si sono aggiunte le scorie di un altro incidente accaduto nel 2011. Il secondo bunker è stato realizzato nel 2013 nel paese simbolo della produzione di pentole e posate: Lumezzane. Il primo è stato realizzato all’Alfa Acciai di Brescia, dove nel 1997 venne fusa una partita di rottame proveniente dalla Cecoslovacchia e contenente Cobalto 60 e Cesio 137. Dentro ci sono oltre 500 tonnellate di materiale contaminato al quale si sono aggiunte le scorie di un altro incidente accaduto nel 2011. Il secondo bunker è stato realizzato nel 2013 nel paese simbolo della produzione di pentole e posate: Lumezzane.
Nel magazzino della ex Rivadossi Metalli c’è un sarcofago di ottocento metri quadrati. Al suo interno sei container contenenti 140 sacchi di materiale radioattivo, fuso in un incidente del 2008. Gli abitanti dei condomini confinanti non erano certo contenti. Pure l’allora procuratore di Brescia, Nicola Pace, davanti alla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti aveva dissentito in modo netto.Nel magazzino della ex Rivadossi Metalli c’è un sarcofago di ottocento metri quadrati. Al suo interno sei container contenenti 140 sacchi di materiale radioattivo, fuso in un incidente del 2008.Gli abitanti dei condomini confinanti non erano certo contenti. Pure l’allora procuratore di Brescia, Nicola Pace, davanti alla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti aveva dissentito in modo netto.
Il terzo e ultimo bunker è stato ultimato nel 2016, sempre in Valtrompia: è alle Acciaierie Venete di Sarezzo, dove nel 2007 si sono fusi rottami contaminati arrivati dall’area del Caspio e dall’Ucraina. Anche in questo caso, come a Lumezzane e all’Alfa Acciai nel 2011, l’allarme non scattò subito. Ad accorgersene fu una ditta di Ponte Nossa, nella Bergamasca, che aveva ritirato le polveri d’abbattimento fumi: l’impianto radiometrico all’ingresso suonò all’impazzata, il carico venne messo sotto sequestro e poi rispedito in Valtrompia.
E la via del bunker è quella indicata dalla Prefettura anche per l’ultimo incidente, quello avvenuto all’acciaieria Iro di Odolo, in Valsabbia nell’agosto scorso: nel forno è finita una fonte di Cesio 137 avvolta nel piombo (che impedisce ai rilevatori radiometrici di individuare una fonte radioattiva). Sono ancora in attesa di una destinazione anche le scorie stoccate alla Service Metal Company di Mazzano e nei capannoni di Castel Mella e di Montirone della Metalli Capra (stessa proprietaria dell’omonima discarica).
Le discariche della Lombardia
Non sono ancora state messe in sicurezza le 370 tonnellate di scorie che si trovano dentro la fonderia Premoli a Rovello Porro, nel Comasco. Sono lì dal 1990, quando venne fusa una partita di rottame contaminato comprato dalla società austriaca Almeta (che a sua volta lo importò dall’Est Europa). Per anni le istituzioni locali hanno sostenuto che non era il caso di allarmarsi, poiché si trattava di una contaminazione talmente bassa da non comportare rischi alla popolazione. Eppure l’ultimo report di Arpa Lombardia parla di cumuli di veleni e «fusti corrosi» conservati in pessimo stato, vicinissimi alle abitazioni ed al torrente Lura, che in caso di esondazione provocherebbe una catastrofe ecologica. Nel 1990 una partita di quello stesso rottame finì anche all’Astra di Gerenzano (Varese), dove oggi sono 320 le tonnellate in attesa di una soluzione definitiva. Come all’Eco-Bat Spa di Paderno Dugnano (Milano), dove nel 2015 si è fusa una fonte di Radio 226, stesso isotopo che nel 2011 ha contaminato anche la Intals Spa di Parona (Varese). Problema: i soldi per questi interventi non ci sono.
I due casi in Veneto
Nell’elenco ufficiale dei siti a bassa radioattività c’è quasi esclusivamente la Lombardia, ma solo perché qui si trova oltre la metà delle fonderie italiane e quindi è statisticamente più alto il numero di incidenti rilevati e potenziali. Maurizio Pernice, direttore di Isin — l’ispettorato nazionale per la sicurezza nazionale operativo dall’agosto 2018 — si dice «stupito» dall’assenza di segnalazioni da parte di altre regioni. Fa eccezione il Veneto. Qui il primo incidente radioattivo mappato risale addirittura al 1974.
Nell’azienda ospedaliera universitaria di Verona ben cento tonnellate di materiale sanitario venne contaminato da aghi di Radio 226. Visti gli ingenti quantitativi e un livello di radioattività più alto del solito il materiale è rimasto stoccato nel magazzino dell’ospedale, non finendo così nei venti depositi temporanei presenti in Italia, che accolgono le scorie a bassissima radioattività prodotte quotidianamente da ospedali e industrie.
Più inquietante l’episodio del 2004 verificatosi alle Acciaierie Beltrame di Vicenza: il materiale radioattivo era arrivato dalla Italrecuperi di Pozzuoli specializzata nella raccolta di materiale ferroso, che a sua volta lo aveva acquistato da una ditta statunitense di Cincinnati (Ohio), la Ohmart, produttrice dell’isotopo per usi industriali. Il copione è sempre lo stesso: fonte radioattiva nel forno, contaminazione, sequestro, stoccaggio e anni d’attesa per capire il da farsi.
Già, perché il famoso deposito unico nazionale, autorizzato dal 2001, e in cui confluire tutte le scorie radioattive provenienti dallo smantellamento delle centrali, centri di ricerca, ospedali, industrie, ancora non c’è.
I fondi insufficientie le quattro priorità
La messa in sicurezza delle scorie radioattive viene pagata da tutti gli italiani con accise presenti nelle bollette della luce. Lo Stato fino ad oggi ha riservato tutte le risorse (3,7 miliardi) alla gestione e allo smantellamento delle quattro ex centrali nucleari, dei cinque reattori di ricerca e dei quattro impianti sperimentali, il cui potere radioattivo è 40 mila volte superiore ai siti a bassa radioattività. Dopo quasi 20 anni quello smantellamento non è nemmeno a metà strada. Intanto sono decine le discariche contaminate sparpagliate in tutto il Paese.
Con la legge Bilancio del 2018 il Governo ha stanziato 15 milioni — spalmati su tre anni — per la messa in sicurezza dei siti a bassa radioattività. Ma solo per disinnescare la bomba ecologica di Capriano del Colle servirebbero 10 milioni di euro. Ed è questa la priorità d’intervento per Isin, che ha inviato il suo elenco al ministero dell’Ambiente.
Qui andrebbero impermeabilizzati i lati dell’ex cava d’argilla, rifatta la copertura e possibilmente isolato il fondale. Evitando così che la pioggia lavi le scorie producendo 300 tonnellate l’anno di percolato tossico. L’acciaieria è fallita a gennaio, i curatori fallimentari hanno giusto i soldi per garantire la rimozione dei succhi inquinanti. I restanti 5 milioni del fondo sarebbero da destinare all’ex Cagimetal di Brescia.
Anche qui le scorie sono state posizionate in una ex cava alla mercé della falda, che potrebbe salire e contaminarsi, visto che il Cesio è altamente solubile. Fine dei fondi. Ad oggi non c’è un euro disponibile per la messa in sicurezza delle acciaierie Premoli nel Comasco e l’Astra di Gerenzano, in provincia di Varese. E non c’è una quantificazione definitiva di quanti milioni servirebbero per intervenire definitivamente su tutti i siti.
Per la verità ad oggi non ci sono nemmeno indicazioni su come spendere questi 15 milioni: «Mancano i progetti di bonifica ed indicazioni operative per i criteri d’accesso al fondo», dichiara Arpa Lombardia in un’audizione al Senato nell’ottobre scorso.
La via bresciana dei bunker, una spesa doppia
Se per le due discariche del Bresciano i tempi di intervento si annunciano biblici, la strada maestra per mettere in sicurezza le scorie radioattive presenti nelle altre acciaierie è quindi la creazione di altri bunker. Che hanno un costo. Quello realizzato alle Acciaierie Venete di Sarezzo — in grado di resistere anche all’impatto di un camion in corsa e con una durata garantita di 300 anni — è costato mezzo milione di euro. L’Italia entro il 2025 deve individuare un deposito nazionale per le scorie radioattive, ma nessuna regione lo vuole, e ora si sta trattando con la Slovacchia. Nell’attesa costruiamo bunker dentro le aziende. In conclusione: i problemi si raggirano, si tappano le emergenze quando non si possono più nascondere, si sprecano tante risorse. Mentre le ricadute sulle conseguenze di veleni senza odore e colore, andranno ad incrementare le statistiche oncologiche. Tanto nessuno sarà mai in grado di ricondurre l’effetto alla causa.
Milena Gabanelli e Pietro Gorlani - Corriere della Sera
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