Don Pizzoli (Fondazione Missio): l’Italia sempre più “terra di missione”
di GIACOMO GALEAZZI
«L’Italia è ancora una terra di missionari, ma è sempre più una terra di missione», afferma don Giuseppe Pizzoli. Direttore della Fondazione Missio e dell’Ufficio Nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese, prima di essere chiamato a Roma dalla Cei, è stato missionario nello stato brasiliano di Paraiba e in Guinea Bissau. Il 24 marzo 1980, mentre celebrava messa, venne ucciso San Oscar Arnulfo Romero, vescovo di San Salvador.
Dal 1993 questa tragica data è diventata Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. Qual è il senso per la Chiesa italiana di questo speciale evento di preghiera per ricordare tutti i testimoni del Vangelo uccisi in varie parti del mondo?
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«Siamo abituati a pensare che le persecuzioni dei cristiani appartengono solo al passato, o meglio, all’antichità della Chiesa. In realtà le persecuzioni hanno accompagnato tutta la storia della Chiesa e ci accompagnano ancora nei nostri giorni. Il Papa ci ricorda che il secolo scorso e l’inizio di questo nuovo secolo sono caratterizzati da un numero sempre crescente di cristiani perseguitati nel mondo e da un grande numero di “martiri”, ossia, persone uccise per causa della loro fede, del loro impegno nell’annunciare il Vangelo di Cristo e di testimoniarlo nel servizio della “carità” ai più poveri, sfruttati, oppressi o abbandonati. La Chiesa intera ha il dovere di manifestare la sua vicinanza e solidarietà nei confronti di queste moltitudini di fratelli perseguitati e la data del 24 marzo ne è l’occasione più propizia. Per noi cristiani la preghiera è la forma più alta della solidarietà e il digiuno ci fa sentire più vicini ai sacrifici di coloro che soffrono per causa della loro-nostra fede».
Nel mondo globalizzato quali caratteristiche deve avere una missione per essere efficace?
«Parliamo di un mondo globalizzato, ma in realtà la globalizzazione è molto parziale e ingiusta: di fatto essa si riduce soltanto all’aspetto economico o mercantile o alla vorticosa velocità della circolazione planetaria di informazioni. In realtà assistiamo ad un continuo allargamento della forbice tra i Paesi ricchi e i Paesi pietosamente chiamati “in via di sviluppo”, ma che dovremmo chiamare “impoveriti” delle loro materie prime, delle loro capacità produttive e delle loro prospettive di futuro. Noi missionari siamo testimoni di questa ingannevole globalizzazione e sentiamo l’urgenza di una vera globalizzazione dei diritti umani, dei valori di giustizia, di solidarietà, di fraternità universale, di rispetto dell’ambiente, di condivisione delle risorse... Oggi, per essere missionari annunciatori del Vangelo, non possiamo fare a meno di mettere al primo posto i poveri e gli esclusi di questo mondo e farci portavoce della loro sete di dignità, di giustizia e di speranza».
Quanti sono e come sono distribuiti i missionari italiani oggi?
«I missionari italiani nel mondo oggi sono circa 7mila, per la maggior parte appartenenti ad istituti religiosi maschili e femminili, ma tra questi anche 406 sacerdoti diocesani e 200 laici inviati dalle nostre diocesi italiane. A questi si deve aggiungere un grande numero di missionari inviati dai movimenti ecclesiali, e centinaia di “volontari” inviati da associazioni e Ong di ispirazione cristiana in servizi di cooperazione dei quali, al momento, non siamo in grado di fornire i dati. Senza contare le centinaia e centinaia di quelli che io chiamo “volontari pendolari”, ossia coloro che ogni anno dedicano un mese o due o tre ad un servizio volontario in appoggio a missionari di cui sono amici e sostenitori. Abbiamo missionari italiani distribuiti in tutti i continenti, ma dobbiamo sottolineare che le presenze maggiori si trovano in America Latina e in Africa».
Oggi l’Italia è più terra di missione o terra di missionari?
«Oggi la missione non è più unidirezionale come in passato: dall’Europa, nel nostro caso dall’Italia, al resto del mondo. Oggi possiamo dire che anche la missione si è “globalizzata”: fino a quattro mesi fa vivevo in Guinea Bissau dove condividevo il lavoro missionario con religiosi e religiose provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Kenya, dal Senegal, dall’Angola, dal Myanmar e dal Bangladesh. Io credo che la nostra Italia continua ad essere un terreno molto fertile di missionari. È pur vero che le vocazioni religiose, di consacrazione alla missione “ad vitam” soffrono di una profonda crisi, ma dobbiamo dire che la vocazione di laici missionari “ad tempus” ha avuto negli ultimi decenni uno sviluppo notevole e pensiamo che nel futuro prossimo possa avere un ulteriore crescita. Possiamo dunque dire che l’Italia è ancora una terra di missionari! Mi sembra comunque importante aggiungere una ulteriore riflessione: il Concilio Vaticano II ha riaffermato e il Papa Francesco ce lo ricorda continuamente - soprattutto con l’indizione del Mese Missionario Straordinario nell’ottobre prossimo - che la vocazione missionaria è radicata nel Battesimo ed ogni battezzato è per sua natura missionario. Dobbiamo dunque dire che in ogni luogo in cui ci sono delle comunità cristiane, anche se sono una strettissima minoranza, quella è una “terra di missionari”; e in ogni luogo in cui ci sono persone che non conoscono la fede o l’hanno in qualche modo messa da parte o abbandonata, quella è una “terra di missione”. Dobbiamo riconoscere che l’Italia, negli ultimi decenni, è diventata sempre più anche una terra di missione».
La Chiesa cattolica cresce continuamente per numero di fedeli, ciò aumenta il rischio di martirio per i missionari?
«In generale, nei paesi di antica tradizione la Chiesa sembra perdere sempre più terreno, mentre in continenti e paesi in cui la fede cristiana è più recente la Chiesa sta crescendo molto. Spesso questa crescita avviene in paesi in cui non si è ancora giunti alla coscienza e alla pratica della libertà religiosa e in cui la presenza della Chiesa a volte è tollerata, mentre altre volte fortemente contrastata. Sembra incredibile, ma è proprio in queste situazioni di ostilità che la Chiesa diventa testimone più autentica del Vangelo e suscita adesioni più convinte e coraggiose. E’ chiaro che in queste situazioni, il rischio di martirio è più alto, ma non dimentichiamo che sempre, nella storia della Chiesa, il sangue dei martiri è stato e continua ad essere lievito di nuove e convinte conversioni».
Cosa spinge un religioso o un sacerdote a prendere la strada della missione?
«Credo che ciascun missionario ha maturato la sua scelta di vita attraverso situazioni e percorsi molto differenti. Ma sono certo che c’è un fondamento comune a tutti, senza il quale non saremmo missionari, ma semplici operatori umanitari: siamo diventati missionari perché, ad un certo punto della nostra vita, ci siamo appassionati per Cristo e abbiamo mangiato, bevuto e assimilato il suo Vangelo».
Nel messaggio per l’ultima Giornata missionaria mondiale, Papa Francesco ha espresso la certezza che la fede cristiana resta sempre giovane quando si apre alla missione. In che modo “la missione rinvigorisce la fede”?
«La fede è una semente divina seminata da Dio nella nostra esistenza. Essa non può essere considerata semplicemente un patrimonio da “conservare”: diventerebbe stantia ed insignificante. Non si mettono le sementi in cassaforte, non produrrebbero alcun intesse! Se è vero che la fede è una semente, allora solo se viene “buttata fuori” può raggiungere la sua finalità, la sua realizzazione. Solo una fede testimoniata nel campo della vita quotidiana viene messa realmente alla prova in quelle che sono le sue potenzialità e solo se viene “imbrattata di terra” può sprigionare la forza vitale che contiene in se stessa e può dare frutto. In questo senso io vedo la “missione”: è il coraggio di buttare fuori la nostra fede nel turbine della vita reale, anche con il rischio di imbrattarla nelle realtà umane più scabrose; è lì che essa diventa giovane, fresca e fruttuosa. La missione permette alla nostra fede di diventare una primavera per la Chiesa, per l’umanità e per un futuro migliore». (VATICAN INSIDER)
GIACOMO GALEAZZI
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