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Francesco, il sultano e quel fuoco 'sospetto'

Più di una volta Francesco aveva tentato di recarsi nelle terre d’Oltremare

di Felice Accrocca

Più di una volta, se dobbiamo prestar fede a Tommaso da Celano, Francesco aveva tentato di recarsi nelle terre d’Oltremare. L’agiografo accenna infatti a ben due tentativi falliti (1Cel 55-56: FF 417-420) prima che nel 1219 l’Assisiate potesse finalmente realizzare il proprio desiderio e partire, portando con sé frate Illuminato (LegM IX, 8: FF 1173). La testimonianza più antica di parte cristiana di quel viaggio è una lettera di Giacomo da Vitry, un prelato brabantino che nel 1216 Innocenzo III aveva nominato vescovo di Acri (Tolemaide).

Nel 1220, in una lettera diretta, tra gli altri, anche a papa Onorio III, e nella quale peraltro non risparmiava critiche ai frati, Giacomo da Vitry non poté tuttavia non esprimersi con una punta di ammirazione nei confronti di Francesco: “Il loro maestro – scrisse – che fondò questo Ordine, venuto presso il nostro esercito, acceso dallo zelo della fede, non ebbe timore di portarsi in mezzo all’esercito dei nostri nemici e per alcuni giorni predicò ai Saraceni la parola di Dio, ma con poco profitto” (2Vitry 2: FF 2212).

Si trattò – è bene dirlo – di una spedizione del tutto improvvisata. Giordano da Giano narra che Francesco, messosi alla ricerca del suo interlocutore, il sultano Malik al-Kamil, senza alcun interprete e senza alcuna mediazione, “prima di giungere a lui subì molte ingiurie e offese, e non conoscendo la loro lingua gridava tra le percosse: Soldan, Soldan.

E così fu condotto da lui e fu onorevolmente accolto e curato molto umanamente nella sua malattia” (
Giordano 10: FF 2332). Pur trattandosi di un racconto più tardo, è difficile pensare che ci si trovi qui di fronte a un’invenzione o rielaborazione del cronista. Francesco appariva forte unicamente della sua debolezza, fatto, questo, che mise in risalto anche la magnanimità del sultano.

Qualche tempo dopo, Giacomo da Vitry ebbe modo di confermare quanto aveva affermato in precedenza e, in qualche modo, pure il racconto di Giordano, scrivendo che il santo “volle recarsi, intrepido e munito solo dello scudo della fede, nell’accampamento del sultano d’Egitto” (
VitryHoc 14: FF 2227).

Tornato in patria, Francesco fece inserire nella Regola che andava progressivamente redigendo insieme ai suoi frati, un capitolo (Rnb XVI) dedicato proprio a quanti avrebbero voluto recarsi tra i saraceni. Il testo esprime la visione francescana dell’obbedienza, che raggiunge il suo culmine nell’abbandono totale al Signore e nella consegna della propria esistenza (i frati hanno “abbandonato i loro corpi”).

Duplice era il modo in cui i frati potevano “comportarsi spiritualmente in mezzo a loro” (tra i «saraceni», appunto, e gli «altri infedeli»): una volta sinceratisi che ciò fosse piaciuto al Signore, essi potevano avviare l’opera di evangelizzazione invitando apertamente i loro interlocutori ad abbracciare la fede trinitaria, per quanto rimanesse sempre e comunque possibile l’alternativa di una vita nascosta, condotta nella muta e silenziosa testimonianza, senza muovere liti né questioni e sottomettendosi ad ogni creatura.

Alla luce di queste testimonianze, suscita dunque perplessità il racconto – che ha goduto invece di una diffusione enorme – di Bonaventura da Bagnoregio. Questi mostra di conoscere il capitolo XVI della prima Regola, che si apriva con le parole: “Dice il Signore: Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe (Mt 10,16)” (Rnb XVI, 1-2: FF 42). Con abile artificio, Bonaventura ricorda come, all’inizio del viaggio per incontrare il sultano, Francesco avesse detto al suo compagno, frate Illuminato: “Abbi fiducia nel Signore, fratello, perché si sta realizzando in noi quella parola del Vangelo: Ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (LegM IX, 8: FF 1173).

Quel che seguì fu, secondo l’agiografo, il puntuale avverarsi di quella profezia: i due furono infatti malmenati dalle sentinelle saracene, quindi condotti al cospetto di Malik al-Kamil, così come Francesco desiderava. Fin qui il racconto di Bonaventura coincide non solo con quello di Tommaso da Celano, ma pure con quello – fortemente realistico – di Giordano da Giano. Tuttavia, a differenza di Giordano, che indirettamente dipinge il sultano come un uomo dotato di un’umanità straordinaria, e di Tommaso, il quale non esita a riconoscere che questi accolse Francesco “con grande onore” (1Cel 57: FF 422), Bonaventura ne traccia un profilo impietoso (LegM IX, 7: FF 1172), anche se poi, nel prosieguo del suo racconto, sembra suo malgrado quasi costretto a descriverne l’agire cortese.

Il fatto è che sia Tommaso da Celano sia Bonaventura collegano il viaggio alla sete di martirio del santo, ragion per cui Bonaventura fu alla fine spinto a scrivere un racconto che sembra essere più una sua costruzione anziché un fedele resoconto dei fatti. Secondo l’agiografo, infatti, Francesco avrebbe prima sfidato i “sacerdoti” del sultano a una prova del fuoco, quindi, dopo che questi si erano defilati, si sarebbe offerto d’entrare lui solo tra le fiamme per dimostrare la superiorità della propria fede, sfida che però Malik al-Kamil non volle accettare “per timore di una sedizione popolare” (LegM IX, 8: FF 1174).

Il racconto di Bonaventura fu la fonte a cui – su volere della committenza – gli artisti s’ispirarono per narrare in immagini la vita di san Francesco nella basilica superiore di Assisi. La didascalia che si legge alla base della scena XI, che ritrae appunto l’incontro di Francesco con il sultano, concentra l’attenzione sulla prima sfida lanciata dal santo, quella rivolta ai “sacerdoti”: l’intento è quello di mostrare il coraggio di Francesco e la codardia dei religiosi saraceni. Giotto e la sua scuola resero il soggetto con grande efficacia, ponendo Francesco e il compagno al centro della scena, tra il sultano e i suoi consiglieri da un lato e i sacerdoti dall’altro: a separare questi ultimi dal santo, un fuoco che però, stando a quanto racconta lo stesso Bonaventura, non fu mai acceso.

A incrociarsi non sono gli sguardi di Francesco e del sultano, ma quelli del sultano e dei suoi sacerdoti: l’espressione dei religiosi, accortisi di essere stati notati dal loro signore, osservati anche dal compagno che è alle spalle di Francesco, sembra tradire non tanto la paura del fuoco, quanto la vergogna per la pusillanimità mostrata in un momento tanto solenne.
Francesco, invece, fissa i propri occhi sul sultano, indicando con la destra il fuoco che è alle sue spalle.

È proprio tra quelle fiamme, però, che bisogna concentrarsi, perché in mezzo ad esse possiamo osservare un particolare che non è stato ancora notato e sul quale bisognerà invece, nel futuro, riflettere con attenzione. Nella parte bassa, quasi sul perimetro del fuoco, si distingue con tutta evidenza la figura di un serpente/drago avvolto dalle fiamme, le quali pare anzi si sviluppino proprio attorno alla sua sagoma che, nel bruciare, si agita contorcendosi. È questo uno degli elementi di novità emersi da una ricerca tuttora in corso, che costituisce una riprova ulteriore, e non di poco conto, delle novità anticipatrici della pittura di Giotto.

La spedizione di Francesco dal sultano si risolse, in definitiva, con un nulla di fatto. Si produsse tuttavia un “incontro” la cui lezione deve, ancor oggi, farci meditare. A trovarsi di fronte furono due personaggi tanto diversi eppure, sotto alcuni aspetti, vicini: l’uno si recò nell’accampamento avversario facendo leva non sulla forza delle armi, ma “munito solo dello scudo della fede”; l’altro l’accolse “onorevolmente” e lo curò “molto umanamente nella sua malattia”. In tempo di riarmo seppero ascoltarsi, facendo sì che per un breve frammento di tempo le spade venissero riposte nel fodero. Nessuno dei due abdicò alla propria fede, tuttavia quella diversità – pur profonda – non impedì l’incontro, né fu negata la possibilità di un confronto, che si protrasse “per alcuni giorni”.

A distanza di otto secoli da quei fatti, dobbiamo riconoscere che è ancora questa la profezia per il futuro, una profezia alla quale sono chiamati, in primo luogo, tutti i figli di Abramo – ebrei, cristiani e musulmani – e tutti i credenti in Dio. Una via che rifugge dall’irenismo a buon mercato e chiede rispetto reciproco, accoglienza, conoscenza dell’altro; una via che ricerca la verità attraverso il confronto e il dialogo, aborrendo ogni forma di violenza.


Felice Accrocca

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