Giovanni Lo Storto: Lo stile è l’uomo
Il nostro look è ancora il modo più immediato con cui ci presentiamo agli altri e dagli altri veniamo percepiti
Nel 1902, la rivista Fashion pubblicò una elaborata tabella pensata per fornire ai propri lettori una guida ai codici di abbigliamento più appropriati per le varie situazioni. La giornata era divisa in due grandi momenti, mattina e sera, sei diversi ambiti (dal lavoro alle occasioni formali, dalle gare sportive alle cene) con relative sottosezioni, che andavano a incrociare dieci diverse categorie di abbigliamento – cappotti, cappelli, cravatte, accessori, e così via. In poche parole, il momento della giornata, l’attività che si stava svolgendo e la compagnia di cui si godeva (o che si stava subendo) influenzavano profondamente, e nel dettaglio, l’aspetto e il contegno che bisognava avere. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, molti cambi d’abito sono intercorsi: e se il rigido codice d’abbigliamento d’inizio Ventesimo può apparire quantomeno esagerato, nell’epoca in cui persino le banche d’affari di Wall Street hanno ceduto al casual Friday, non si può negare che, a tratti, viene quasi da rimpiangere la dignità nel mostrarsi pretesa un tempo dai rigidi codici dell’abbigliamento. Eppure, questa sarebbe un’ingenuità: se pure “il corpo è più del vestito”, come recita il celebre passo evangelico, non c’è tempo né luogo in cui uomini e donne non abbiano espresso, per mezzo dell’abbigliamento, il proprio modo di stare al mondo – lo status, la carica ricoperta o il mestiere svolto, il rispetto di norme e consuetudini o l’intenzione (e forse la capacità, simboleggiata proprio dagli abiti) di saperle rompere – o dettare.
La semplice t-shirt grigia di Mark Zuckerberg, look scelto con studiata casualità con il quale il giovanissimo leader di Facebook si presentava agli investitori, era molto di più che non la semplice tenuta di un universitario ventenne. A bene vedere, era esattamente il suo contrario: era il vessillo di guerra del nerd che, direttamente dal dormitorio del college, faceva il suo ingresso nel mondo dei businessmen adulti, lo speciale power suit dei topi da laboratorio che andavano a prendersi il mondo, imponendo le loro regole – dress code per primo. Zuckerberg non è stato il primo né il solo a mostrare, in un ambito tradizionalmente formale e gerarchico come il mondo del lavoro, la potenza dell’abbigliamento. Per non citare che un paio di esempi recenti noti a tutti, Steve Jobs, con il suo semplice pull nero, jeans e sneaker, si presentò al mondo come riflessivo filosofo-geek capace di sedere allo stesso tavolo degli altri top executives ma che diversamente da loro, meglio di loro, non aveva perso neanche il tempo necessario ad abbinare camicia e cravatta; in modo non dissimile, Sergio Marchionne, fin dal suo leggendario arrivo agostano in una Torino e una Fiat deserti nonostante le gravi condizioni finanziarie dell’azienda, ostentò un look semplice e pratico, tutt’altro che formale, a mostrare come l’uomo fosse sempre al lavoro, mai distratto da dettagli come la giacca giusta da indossare in un particolare giorno.
Vint Cerf, uno dei leggendari creatori di Internet e Chief Internet Evangelist di Google, ha al contrario segnalato il proprio anticonformismo non rinunciando mai, neppure nella Silicon Valley degli startuppers, a indossare formali completi da professore universitario anni ’70. Se pure esempi come questi possono essere considerati in qualche modo al limite, intimamente legati come sono a personalità larger-than-life (del resto, grandi responsabilità come non indossare la cravatta durante un cda possono derivare solo da grandi poteri – non le deleghe formalmente ricevute, ma quelli della testa, quelli del cuore), certo possono dirci qualcosa di importante anche su di noi che, più semplicemente, mostriamo cura e rispetto di noi stessi e degli altri quando ogni mattina indossiamo i vestiti più appropriati all'ambito (o agli ambiti) dove trascorreremo la giornata.
Prima di tutto, in un mondo che apparentemente ha perso ogni regola sull'abbigliamento, in parte grazie alle persone di cui abbiamo parlato, il nostro look è ancora il modo più immediato, istintivo con il quale ci presentiamo agli altri e dagli altri veniamo percepiti. Le regole non sono perciò scomparse, anzi, sono diventate forse più difficili da applicare di quelle – rigide, ma formalizzate e inquadrabili in uno schema – della rivista Fashion: oggi possiamo mostrare chi siamo anche in contesti che tradizionalmente non lo permettevano, ma per farlo bisogna saper stare nei panni che ci siamo scelti.
Se il CEO indossa una t-shirt, siamo noi a non poterci più nascondere: possiamo indossarla, se vogliamo, ma non possiamo essere da meno di lui. L’abito, insomma, non fa il monaco, o può farlo più che mai se siamo noi stessi gli architetti del modo in cui scegliamo di mostrarci agli altri: questa è un’epoca di grandi opportunità, prima tra tutte essere ciò che siamo, ma per farlo bisogna saper essere all'altezza di sé stessi.
di Giovanni Lo Storto, Direttore Generale LUISS Guido Carli di Roma
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