Ho chiuso le porte di Auschwitz
Oleg Mandic, croato, classe 1933, aveva 11 anni quando fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz
di Andrea Cova
Oleg Mandic, croato, classe 1933, aveva 11 anni quando fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Otto mesi trascorsi dietro al filo spinato assieme alla madre e alla nonna. Otto mesi in cui l’infanzia gli è stata rubata per sempre.
Oggi gira nelle scuole per raccontare una storia che non dovrà mai essere dimenticata. Se la porta nel cuore, nella mente e sulla pelle, col numero 189488. Nel corso di ogni incontro, o intervista, ci tiene a precisare: “Ho chiuso io la porta dell'inferno. Sono stato io l'ultimo bambino a uscire vivo da Auschwitz, ho sbarrato il cancello”.
Una delle sue affermazioni più diffuse è: “Ho chiuso le porte dell’inferno”. Ci racconta questo inferno e perché sia importante non dimenticare?
Tutti gli anni di evoluzione, progresso tecnologico e scientifico che ha attraversato l’umanità, sembrano essere stati messi al servizio di Auschwitz e degli altri sei campi di sterminio, che come prodotto finale avevano la morte. In otto mesi di prigionia ad Auschwitz non ho mai visto una uniforme tedesca: tutto era organizzato in autogestione, le funzioni “governative” venivano portate avanti dai carcerati stessi che, oltretutto, erano più crudeli dei nazisti perché ricoprivano un ruolo di comando. I soldati tedeschi erano fuori dal recinto di filo spinato; finché non si andava a lavoro fuori – nei grandi magazzini dove venivano stipati vestiti, nelle cucine, nei campi agricoli – non si aveva l’occasione di incontrare i tedeschi. Io ero un bambino e si limitavano a farmi lavorare entro il recinto, per cui non ho mai visto un tedesco. Il campo era un posto in cui quotidianamente morivano di stenti e venivano uccise oltre 4.000 persone.
Che significa per un bambino trascorrere otto mesi di prigionia ad Auschwitz?
Dal momento che sono uscito da lì, ho subito capito che mi avevano rubato l’infanzia, ma anche che sono riuscito ad andare avanti grazie a me.
Ci spiega come?
La componente principale è stata la fortuna, poi l’amore materno e infine, in minor parte rispetto ai precedenti, l’adattamento che riescono ad avere i bambini.
Perché parla di fortuna?
Per fortuna intendo il caso. Faccio un esempio. Trascorsi i primi due mesi di costrizione, si sono accorti che, pur avendo superato i dieci anni di età, non sono stato smistato nel reparto maschile ma sono rimasto con mia madre e mia nonna nel reparto femminile. Quando fu predisposto il mio trasferimento e dovetti sottopormi alla visita medica per passare da un reparto ad un altro, ho avuto la “fortuna” che la paura mi ha fatto venire la febbre, per cui fu impossibile il mio trasferimento. Da quel momento, grazie anche a vari stratagemmi, rimasi nel reparto donne. Un altro episodio che attribuisco al caso, fu il 18 gennaio 1945, quando saremmo dovuti andare da Auschwitz in Germania. Mia madre ed io siamo stati selezionati per partire con altre 80.000 persone. La nonna, invece, sarebbe dovuta rimanere. Con mamma decidemmo che per avere qualche possibilità di sopravvivenza saremmo dovuti restare uniti, per cui, grazie anche al fatto che i controlli in quei giorni erano meno serrati, restammo lì con altre 5.000 persone. Avevamo paura di essere uccisi, ma i tedeschi avevano molta fretta di lasciare il campo di sterminio e, quindi, siamo sopravvissuti. Ho chiuso io la porta dell'inferno. Sono stato io l'ultimo bambino a uscire vivo da Auschwitz, ho sbarrato il cancello.
C’è stato un momento in cui ha avuto più paura che in altri?
Sì, nel giorno in cui sarei stato trasferito al reparto maschile. Non sapevo cosa aspettarmi e avevo paura di lasciare mia madre.
Dopo la liberazione è più tornato ad Auschwitz?
Molte volte!
Cosa significa per lei il 27 gennaio, Giorno della Memoria?
Mi permette di sentirmi di 11 anni più giovane. La mia vita ha inizio il 27 gennaio 1945.
Andrea Cova
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