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Il Natale triste di Taranto, intossicata dalla diossina e dalla demagogia

Fra lavoro e salute, il reportage del Corriere della Sera

Credit Foto - ANSA/DONATO FASANO

La foto sorridente di Nadia Toffa accanto al bancone del Minibar. E, dall’altra parte della piazza, la chiesa operaia di Tamburi, col mosaico di Gesù che dall’abside, in mezzo a lavoratori e ciminiere, benediceva nel 1967 un mondo nuovo di dignità e progresso ormai sepolto. Troppi funerali, troppa paura, troppe umiliazioni. Ignazio D’Andria, storico padrone del bar, è un piccolo frammento della cupa epopea che incatena Taranto da oltre mezzo secolo, e mastica amaro. Il nuovo reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale viene intitolato alla memoria di Nadia, che per realizzarlo qui si impegnò con le Iene, e con lui raccolse 700 mila euro lanciando la maglietta «ie jesche pacce pe te», io esco pazzo per te. Ignazio tiene la maglietta come una reliquia e lamenta che non l’hanno invitato, «i papaveri tutti alla cerimonia e, a me, mi snobbano». A caccia di consenso, molti politici sgomitano in questo palco della disperazione affacciato sull’acciaieria più grande, amata e odiata d’Europa, e sulle sue ciminiere che un pezzo di magistratura vuole chiudere e un pezzo tenere aperte come in una sciarada (se si spegne Afo2, i restanti due altiforni potrebbero seguire a ruota). La demagogia intossica quasi quanto la diossina.

La fabbrica, una clessidra. Tra ricorsi e cause pendenti dal tribunale di Milano a quello tarantino, miraggi di intervento pubblico e guerre di religione sullo scudo penale per ArcelorMittal, la vita della fabbrica (e di quasi 11 mila lavoratori più seimila dell’indotto) è sabbia di clessidra che sta finendo. Quella fine, ha calcolato l’autorevole istituto Svimez, brucerebbe tre miliardi e mezzo del Pil nazionale, di cui 2,4 al Sud. «Il vostro Pil non vale la vita dei nostri bambini», mi sibila, citando un rabbioso slogan di qui, Francesca Martinese, tre figli, impiegata di call center a 1.000 euro di stipendio e moglie di un operaio Ilva che ne prende 1.700: «Spendo un sacco di soldi in farmacia a comprare medicine per la mia bambina più piccola che respira male. Sai cosa me ne importa del vostro Pil?». Un po’ dovrebbe, perché Svimez ha ora calcolato per il Corriere anche l’impatto su Taranto e provincia: qui svanirebbe il 25% del Pil, l’80% del valore aggiunto industriale. Tra stipendi e consumi, effetti diretti, indiretti e indotti «si rischia la desertificazione», dice Luca Bianchi, direttore dell’istituto: «Ora ognuno avrà un’idea fantasiosa e folgorante per Taranto. Ma noi abbiamo davanti l’incubo di Bagnoli: il nulla».

Fra lavoro e salute. Quando le faccio osservare i rischi di una povertà incombente, Francesca non fa una piega: «Vuol dire che al posto di due magliette ne compreremo una». Suo marito, Fabio Cocco, da 17 anni all’acciaieria, mi racconta che, ancora da operaio dell’indotto, vide bruciare vivo un compagno, «strillava: aiutatemi!». Si è dimesso dal direttivo Fiom perché il sindacato vuole la fabbrica aperta, ma gli hanno respinto le dimissioni. Crede, o meglio spera, «nelle bonifiche», mito fondante dell’ambientalismo tarantino e del successo dei Cinque Stelle. Ora i grillini sono caduti dal cuore di molti, avendo promesso a suo tempo una chiusura secca «delle fonti inquinanti». E, per capire quanto sia verosimile una bonifica che impieghi i futuri disoccupati dell’ex Ilva in caso di chiusura, basta ricordare che, nel 2012, i periti della Procura valutavano in otto miliardi la cifra necessaria a bonificare. Contare sullo Stato è un miraggio. Così rischia di risolversi al peggio la dicotomia infame tra lavoro e salute che ha perseguitato questa città per decenni: i tarantini potrebbero infine non avere né l’uno né l’altra. La prospettiva del buco nero e tossico, come Bagnoli o Crotone, si coglie bene nella sede degli industriali di via Lupo. Da una riunione in corso si sente la voce di Antonio Marinaro, il presidente, che arringa i suoi: «Sto cercando di salvare gli imprenditori di Taranto, se no il 2015 è alle porteee!». Qui il 2015 è l’anno orribile in cui, al passaggio di gestione dopo i Riva, lo Stato non pagò 150 milioni di lavori già fatti dalle aziende dell’indotto. «Fu un bagno di sangue», mi spiega poi Marinaro, «e temiamo che una nuova compagine con lo Stato dentro ci faccia lo stesso scherzo».

di Goffredo Buccini inviato a Taranto - Corriere della Sera



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