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La storia di don Giuseppe Morosini, sacerdote della Resistenza

Fu trasferito a Roma nel 1943 e, dopo l'8 settembre entrò nelle file della Resistenza

di Antonio Tarallo
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25 aprile 1945, data importante per la Storia del nostro Paese. Con decreto legislativo luogotenenziale, del 22 aprile 1946, tale giorno, “a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, è dichiarato festa nazionale”. Dal 1946, l’Italia celebra questa data. Tutti i partiti politici dell’epoca capirono che la liberazione dal passato che avevano appena lasciato alle spalle, doveva essere celebrata, come segno di unità nazionale. Un po’ di tempo è passato, e – purtroppo – l’odierno panorama politico, invece, anche per questa data, sembra alquanto diviso in rivendicazioni da “derby calcistico”: tifoserie contrapposte, quasi tutte impegnate nel dichiarare “La Liberazione è nostra!”. Forse, si è un po’ perso, nel tempo, il significato profondo di questa festa. E la storia di don Giuseppe Morosini, ucciso nella Resistenza romana, forse, potrebbe ricordare a tutti che gli avvenimenti che oggi commemoriamo, non hanno steccati, divisioni di nessuna sorta, ma solo un unico, ampio, respiro: festeggiare un’Italia che, dopo le barbarie della seconda guerra mondiale, ritornava in pace.

“Cara Giovanna, nella mia cella c’è un amico carissimo, ti stupirai nel sentir dire che è un prete, ed è autore della presente Ninna Nanna, il mio amico Peppino, mi ha promesso che farà lui il battesimo e dirigerà l’orchestra che dovrà eseguire la presente quando si farà la festa del battesimo; se non capita qualche guaio”. Così scrive Epimenio Liberi, un partigiano che aveva partecipato ai combattimenti di Porta San Paolo contro i nazisti nel settembre del ’43 e che aspettava dalla giovane moglie il terzo figlio. Il “prete” di cui parla Liberi, si chiama Don Giuseppe Morosini. Il sacerdote aveva scritto, in carcere, questa tenera ninna nanna: “C’è un castello di fate in riva al mare. / C’è un castello di re sopra la terra. / C’è una bionda regina fra le ancelle. / C’è una dolce madonna fra le stelle. / Il castello del re è la tua culla. / E la bionda regina è la tua mamma. / Che con le fate ti ripete in coro / la più amorosa e dolce ninna nanna. / Dormi, tesoro, sopra il capo c’è la Madonna, / sopra il tuo cuore c’è il mio cuore”.

Ma chi era don Giuseppe Morosini? Ordinato nel 1937, don Morosini divenne, nel gennaio del 1941, cappellano militare del Quarto Reggimento d'artiglieria a Laurana. Fu trasferito a Roma nel 1943 e, dopo l'8 settembre entrò nelle file della Resistenza, collegandosi con la “Banda Fulvi", comandata da un ufficiale dell'esercito italiano, il tenente Fulvio Mosconi. Il gruppo era attivo a Monte Mario, e dipendeva dal Fronte Militare Clandestino. Roma diviene “terra di missione”, in quel periodo così travagliato della Storia italiana. A bordo di un camioncino, camuffato con le insegne della “Polizia dell’Africa italiana”, il sacerdote e i partigiani raggiungono i quartieri di Roma, per rifornire di vettovaglie, indumenti, tessere annonarie e permessi di circolazione falsificati, ai resistenti che si erano nascosti in quei giorni convulsi. Don Peppino li va a trovare, celebra per loro la messa. Col suo amico Marcello Bucchi, sottotenente d’artiglieria, fa parcheggiare due camion davanti alla chiesa di Santa Maria in Campitelli, nei pressi del Ghetto. Era il 21 ottobre 1943.   Nei locali della parrocchia romana, riescono a trovare rifugio una sessantina di ebrei, scampati al rastrellamento tedesco. Ma anche quel luogo si rivelerà non sicuro. Li trasferisce, allora, nella zona di Monte Mario, una zona “periferica” della Capitale.

Ma don Giuseppe fu denunciato da un “infiltrato”, tale Dante Bruna. Per la consegna del sacerdote fu pagato un compenso di 70 mila lire. Cristo fu pagato trenta denari. Don Giuseppe Morosini fu arrestato dalla Gestapo il 4 gennaio del 1944.

Rinchiuso nella cella 382 del terzo braccio di Regina Coeli, anche se non gli viene concesso di celebrare la messa, intona ogni sera il Santo Rosario. Era abituato a cantare, don Giuseppe e, così, la preghiera mariana si effonde per tutto il carcere, tanto da far rispondere agli altri detenuti, dalle altre celle del carcere romano: “Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatoribus nunc et in hora mortis nostrae”.

Sottoposto a tortura, mantiene un orgoglioso contegno. Il 3 aprile 1944 il valoroso sacerdote è trasportato a Forte Bravetta, nell’allora campagna romana, per essere fucilato da un plotone della PAI (Polizia Africa Italiana). Ecco che giunge l’ordine: “fuoco!”. Il plotone è formato da dodici persone. Dieci sparano in aria.  Ferito dai colpi degli altri due, don Morosini, viene ucciso dall'ufficiale fascista posto a capo del plotone.   Due colpi di pistola alla nuca, finiscono il sacerdote. Era il giorno dopo la Pasqua di Resurrezione, il Lunedì dell’Angelo.

La storia di don Morosini ispirerà uno dei film simbolo della Resistenza e della Liberazione italiana, “Roma, città aperta”. Il regista era l’ateo comunista Roberto Rossellini. La Liberazione non ha colore.



Antonio Tarallo

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