Lesioni spinali. Bortuzzo e gli altri che lottano per rialzarsi
La vita ti sorprende. Anche quando sembra condannarti su una sedia a rotelle. Le cause possono essere infinite: un’imprudenza, una patologia, la violenza... La storia di Manuel Bortuzzo, il nuotatore costretto a vivere sulla sedie a rotelle a causa di un colpo di pistola esploso contro di lui per errore il 3 febbraio, ha commosso tutti. Ma accanto a lui ci sono tanti che ogni giorno mostrano agli altri quanta energia sprigioni la vita. Mani, cuore e testa possono restituire quella forza che l’uso delle gambe perduto sembra cancellare. Lo dimostrano con le loro storie i ragazzi che abbiamo incontrato alla Fondazione Santa Lucia, nello stesso reparto dove Manuel combatte per risalire la corrente. Grazie a un team di medici, infermieri ed esperti, si allenano per migliorare ogni istante della loro vita.
Alfonso Catalano. Ha 22 anni e fino a quel 1° giugno, il giorno dell’incidente, lavorava come cameriere a Ibiza. Guadagnava come un professionista affermato, riuscendo a godersi tre mesi di vacanza in giro per il mondo. Parla spagnolo e inglese, che ha imparato «a Londra, lavorando nei pub». «E poi tutto è cambiato – ci racconta Alfonso –. Non posso tornare a camminare, solo un miracolo mi può salvare. Ma sono vivo e devo ancora realizzare tante cose. Sedia o non sedia, ho la mia famiglia e i miei amici, che mi stanno vicino e mi aiutano in tutto». Confida di non essere stato sempre così ottimista: «Quando mi sono risvegliato dopo l’incidente il dottore mi ha detto: 'Non puoi camminare più'. E le prime parole che ho pronunciato sono state: 'Perché non mi uccidi?'. Il medico non si è arreso e davanti alla mia disperazione mi ha aiutato a combattere. Da quel momento ho pensato che ero sopravvissuto e che il resto non aveva importanza. Certo, ogni tanto prevale lo sconforto. Quando il desiderare un’altra esistenza diventa un pensiero fisso si rischia di ammalarsi davvero...». La sera dell’incidente, alle 22, Alfonso era solo sul motorino, superava le auto ed è caduto per via di un dosso. Non correva, il tachimetro segnava 40 all’ora. «Volevo girare il mondo, immaginavo di stabilirmi in una città, con la persona giusta per creare una famiglia. Ora voglio imparare anche il francese, e sogno sempre di viaggiare. Il 1° giugno riparto per Ibiza. Non potrò fare il cameriere, ma magari starò alla cassa. Voglio ricominciare a lavorare, amo il contatto quotidiano con le persone».
Licia Cotesta. Madre di tre ragazzi di 29, 28 e 21 anni, Licia ha subìto un calvario di esami clinici prima di capire che un’ernia, ormai calcificata, comprimeva il midollo spinale e le stava impedendo di camminare. «Ho affrontato due interventi, sono sulla sedia a rotelle e faccio fisioterapia, ma i medici mi hanno prospettato anche il rischio di non camminare più. Quando mi sono svegliata, dopo il primo intervento, e non muovevo più le gambe sono andata in crisi. Al mio fianco però ho avuto mio marito, che mi ha curato con amore. Dipendere dagli altri per cose semplici, dal cibo all’igiene, non è stato facile. Non ero abituata a chiedere, mi sentivo umiliata dalla mancanza di autonomia». Licia vive a Roccagorga, 4mila abitanti in provincia di Latina, poco attrezzato. «La presenza di mio marito e dei miei figli mi conforta. Anche il mio lavoro mi ha aiutato: ero insegnante di sostegno nella scuola dell’infanzia di Anzio. Ma quando sei tu a vivere la disabilità comprendi di non averla capita del tutto. Senza il mio lavoro oggi sarebbe più dura».
Dario Carosi. Terzo figlio della famiglia di proprietari e fondatori di Mondo Convenienza, Dario è salvo per miracolo. «Dicono che due persone su 300 hanno la fortuna di poter raccontare quello che è successo. È capitato una mattina, l’8 agosto 2018. Ero in ritardo, e non avevo indossato la tuta protettiva per andare in moto. Viaggiavo con jeans, maglietta e il mio casco, realizzato su misura con tre strati di protezione. Guidavo a una velocità tale che quando una macchina mi ha tagliato la strada, mi hanno dato per spacciato». Laurea magistrale alla Luiss e master a Londra, Dario, 27 anni, ha lavorato sin da bambino: «Nella nostra azienda ci sono valori che valgono per ogni collaboratore, e noi ne abbiamo 8mila: lealtà, rispetto, spirito di iniziativa, e l’ultimo, più importante, la responsabilità. Per questo continuo a lavorare da qui e partecipo, via Skype, a riunioni di lavoro. Anche per aiutare i miei genitori che si sono molto affaticati. Certo, quando vedo le foto e ripenso alla mia vita frenetica di prima, ne ho nostalgia. Ma ora ho sviluppato la pazienza. Prima non sopportavo le persone calme, prudenti, quelle che rallentano al Telepass, quelle che io chiamavo i losting time. Non dedicavo più di 5 minuti al pranzo, perché quel ritmo professionale, alla guida di un’azienda, era diventato il ritmo della mia vita. Vivendo ora sulla sedia a rotelle mi sono reso conto che non esiste una linea di mobili accessibili per le persone nelle mie condizioni. Dalla cucina alla camera da letto, il tetraplegico deve spendere tanti soldi per potere avere una casa a sua misura. Stiamo già lavorando per sviluppare mobili ad hoc. A fine giugno partirò per Barcellona, dove apriremo il primo punto vendita: è un progetto che avevo avviato un mese prima dell’incidente e rappresenta per la nostra azienda – che in Italia ha superato le vendite di Ikea – il primo passo verso l’Europa».
Luigi Cavalcanti. «La mia vita prima dell’incidente non è tanto distante da quella di adesso: sono sempre pieno di idee, desideri e di passioni. E in questa condizione ho scoperto nuovi stimoli. All’inizio non avevo alcuna autonomia. Il pensiero di essere immortale mi aveva sfiorato quando, dopo le vacanze estive a Diamante, sono tornato a Roma. Avevo viaggiato in moto per tre ore sotto la pioggia. E poi, 10 giorni dopo, un semplice incidente: una macchina mi ha tagliato la strada. Mi ha provocato fratture e la lesione del midollo spinale. Il primo mese è stato duro: all’inizio paragoni la tua vita d’ospedale a quella di prima. Però è importante salvaguardare la mente: devi sapere chi sei, e molti ragazzi, quando arrivano qui, pensano di non essere più loro. Ma se tieni la testa alta e pensi che nessuno sia mai diventato qualcuno solo perché seduto o in piedi, ce la fai. Ho imparato a viaggiare con la mente: il primo mese in ospedale il mio letto era vicino alla finestra: percepivo l’odore dell’autunno, pensavo agli scorci felliniani e ho capito che si può viaggiare anche da fermi». Luigi, che nel percorso terapeutico ha fatto l’addestramento all’uso di esoscheletri, ha intenzione di vivere da solo in una casa vicino alla Fondazione Santa Lucia. «Ho sviluppato una tenerezza che prima non possedevo, avevo un’ansia di sentirmi sempre vivo, e ora mi sto godendo di più la vita. Il 28 dicembre ho festeggiato il compleanno e sono venuti in clinica 60 amici. Queste persone mi hanno dato tantissimo e, nonostante in passato sia stato superficiale con alcuni di loro, ho scoperto nuovi e vecchi affetti».
Emanuela Genovese, Avvenire
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