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Nodi e snodi in Vaticano, di Piero Schiavazzi

Un Sinodo che vale un Concilio. Un nuovo modello di Chiesa, a geografie e teologie variabili

di Piero Schiavazzi
Credit Foto - Ansa - VATICAN MEDIA

Come il più celebre dei gesuiti cinematografici, reso immortale da Robert De Niro nelle immagini cult del film Mission, Bergoglio ha risalito la corrente della storia tra i paesaggi e passaggi, abbagli e spiragli del proprio universo di provenienza, in caparbia ricerca della purezza delle origini, contro la roccia e le incrostazioni del tempo.

Spoglio dell’armatura della Chiesa istituzione, fatta di curie, apparati e tradizione, ma costretto a portarsela, o meglio trascinarsela dietro, sulle spalle: compito a cui un Papa non può rinunciare, pena venire meno al suo destino, cirenaico e antico, di camminare insieme. Fra inciampi e passi falsi, snodi e sinodi.

Sulla scia del predecessore di celluloide, Francesco nell’arco di venti giorni è riuscito ad ascendere una parete proibitiva di venti secoli, cogliendo un traguardo che ieri sembrava inafferrabile, ma si materializza oggi, a portata di firma e di riforma, sulla sua scrivania, nel documento conclusivo.

Se il diaconato delle donne rimane infatti un miraggio privo di maggioranza, rinviando a un’ulteriore fase di confronto e ricevendo, su questa mera istanza interlocutoria, il “messaggio” dissuasivo di trenta suffragi contrari - l’ordinazione dei viri probati, ossia di uomini sposati per supplire alla penuria di sacerdoti, ha invece compiuto un balzo epocale, nonché apicale, superando l’asticella dei due terzi. Un upgrade che rassicura, nel dispositivo, sulla limitazione alle “zone più remote”, ma in prospettiva insinua una estensione, nondimeno, e “approccio universale all’argomento”.

Verde smeraldo e rosso spento. Il manto arboreo dell’Amazzonia e le stimmate plurime, cronicizzate, delle miniere a cielo aperto e radure disboscate. Il Brasile metaforicamente visualizza e misteriosamente finalizza le traiettorie di Francesco, pontefice bairense di nascita e carioca di “elezione”, quando battuto allo scrutinio del 2005 risorse due anni dopo da protagonista, nell’assemblea dei vescovi latinoamericani ad Aparecida: evento che sancisce l’ascesa definitiva della sua stella, per lasciarla però sullo sfondo, mimetizzata e in sembianza di outsider, nel firmamento d’autore della Sistina, sino a una sera uggiosa di marzo 2013. Come un albero che cresce silente, inosservato nella foresta pluviale - alla stregua dei giganti scoperti, recentemente, da una spedizione in Guyana -, emergendo dalla giungla mediatica e riconquistando alla Chiesa un posto al sole.

Del resto argentini e brasiliani configurano in certo senso, a sé stanti, dei sudamericani a metà, rispettivamente privi della selva e delle vette, dell’Amazzonia e delle Ande, quali dimensioni costitutive dello spirito e del corpo, della psicologia e morfologia della loro “patria grande”. Completandosi a vicenda.

Contiguità e comunità di destini, geografici e biografici, a cui Francesco ha voluto corrispondere un pedaggio e rendere omaggio nella persona del relatore generale: il francescano Claudio Hummes. Dalla foresta urbana di San Paolo – città fondata dai gesuiti – con i suoi 12 milioni di abitanti, dei quali per 18 anni è stato energico, ascetico pastore (viveva in una sorta di Getsemani o eremo metropolitano, dove chi scrive lo ha incontrato) ai sette milioni e mezzo di chilometri quadrati della Rete Panamazzonica, di cui è adesso presidente, nonostante l’età e ottuagenario, temerario esploratore. Il “compagno di banco” e vicino di scranno che in guisa di messaggero divino nel crogiuolo michelangiolesco del conclave impresse la cifra del pontificato sul magma e cera calda di emozioni e sensazioni, sentimenti e tormenti dell’eletto, rivolgendosi a Bergoglio e sussurrandogli la frase fatidica, “Non Ti dimenticare mai dei poveri”. Allo stesso modo in cui Stefan Wyszynski, profetico, ieratico primate di Polonia significò e marcò il mandato del compatriota Wojtyla, il 16 ottobre 1978: “Il Signore Ti ha scelto per portare la Chiesa nel Terzo Millennio”.

Hummes collega esistenzialmente ad personam nella sua esperienza le due giungle, botanica e urbanistica, che abitano l’immaginario e attirano l’istinto visionario di Francesco: la foresta e le periferie, la biomassa e le masse umane. Contraendosi l’una ed espandendosi le altre, in un nesso e travaso inversamente proporzionale.

In tale ottica deve averlo impressionato non poco l’incendio sociale che simultaneo ai roghi amazzonici deflagra in Latinoamerica e si propaga per mezzo continente, dal cono australe al Caribe, dai barrios di Caracas alla barriera del Texas. Muovendo emblematicamente da Santiago del Cile, laboratorio cinquantennale dei Chicago Boys, discepoli creoli di Milton Friedman. Un sinodo di popolo da un milione di persone, in marcia contro il neoliberismo d’importazione, sancendone il fallimento e smentendo il paradigma di capitale felix, con il più alto e taumaturgico standard di qualità di vita.

Come se agli occhi e nell’intuito di Bergoglio un cordone ombelicale raccordasse, facendole assomigliare, le due preistorie, dell’Amazzonia e delle città del futuro, riserve di socio-diversità e cellule staminali multietniche, tracciati redentivi e meticciati creativi: “La città è un’esplosione di vita, perché Dio vive nelle città”.

Terre promesse, incubatrici di festa e di protesta, dove il successore di Pietro incede contemplativo, alzando altari e togliendo i calzari. Luoghi santi e bruti a un tempo, darwiniani e pasoliniani, popolati da tribù in lotta per sopravvivere, primordiali o postindustriali che siano, a cui Francesco guarda comunque con incanto per la prerogativa, che le accomuna, di generare cultura. E di reagire, quanto meno sottrarsi. all’impostura omologante della colonizzazione ideologica e selezione tecnocratica, che sacrifica i deboli ai più forti: l’unica idolatria che davvero spaventa il Papa, ben al di là delle Pachamama, le statuette trafugate all’alba e gettate nel Tevere ma restituite biblicamente, galantemente a breve giro dalle acque. Simboli ancestrali, equivoci ma profetici, quand’anche paganeggianti, della fertilità e sacralità della terra, nell’autunno demografico e apostasia ecologica dell’Occidente “E’ successo a Roma e come vescovo della diocesi io chiedo perdono alle persone che sono state offese da questo gesto”.

Il “buen vivir” amazzonico, teorizzato dal Pontefice, non prelude ingenuamente a una riedizione-aggiornamento del mito settecentesco del buon selvaggio e della sua connaturata eticità (sonore le obiezioni – osservazioni dei cronisti sulle prassi eutanasiche, ancorché sporadiche, in essere presso alcune popolazioni) quanto piuttosto a una revisione-azzeramento dei metodi e schemi che impediscono al Vangelo di raggiungere quegli universi e inculturarvisi, germogliando e crescendo con caratteristiche autoctone. “Siamo venuti per contemplare. Ci avviciniamo in punta di piedi. Quando la Chiesa si è dimenticata di questo, cioè di come deve avvicinarsi a un popolo, non si è inculturata”.

Contemplazione: ultimo step ai limiti del politicamente corretto, prima di sconfinare in adorazione. Una soglia necessaria e omeopatica di ambiguità dove i missionari abitualmente transitano e stazionano sin dagli albori, assumendo gesti e figure suscettibili di sfuggire di mano - come accaduto nei giardini vaticani, alla vigilia, durante la cerimonia di accoglienza della comunità indigena - per venire successivamente istituzionalizzati dalla liturgia in un apposito rito, il “panamazzonico” appunto, che si aggiunge ai ventitre già esistenti (dal malankarese al malabarese, dall’ucraino – bizantino al mozarabico, dal copto al caldeo) e costituisce una delle maggiori acquisizioni dell’assise. Più che un Sinodo a pensarci bene è andato in scena un Concilio: di macroarea.

Dopo il “pareggio” del Sinodo sulla famiglia - finito in stallo tra conservatori e progressisti su coppie gay e comunione ai divorziati - e il flop mediatico di quello sui giovani, che ha registrato una sconfitta per mancanza di appeal, nonché di gioco, sul terreno delle nuove generazioni, Francesco cerca una vittoria che rilanci l’evangelizzazione dei territori, adeguandosi alle singole realtà del pianeta e disponendosi dottrinalmente “a zona”, per aderire alle necessità del luogo. Archiviando i precedenti delle assemblee dell’80 (Olanda), ’95 (Libano), 2010 (Medio Oriente), in cui aveva prevalso una impostazione difensivista, volta principalmente a contrastare la fuga in avanti degli episcopati modernizzatori (Paesi Bassi) o la retrocessione in serie B delle minoranze cristiane, schiacciate in area e penalizzate dalla Sharia.

Ne discende un modello a teologie oltreché a geografie variabili, per rispondere alla sfida della universalità della Chiesa e della sua pluralità costitutiva, conservando però la struttura piramidale di “Madre Gerarchica”, come ha significativamente ricordato il papa gesuita con le parole di Sant’Ignazio nel giorno di apertura dei lavori.

Un Concilio di macroarea quindi, che non raduna in Orbe bensì convoca in Urbe, cum Petro e sub Petro, nella loro totalità, i vescovi di nove nazioni e 113 circoscrizioni ecclesiastiche: “in ritiro” per tre settimane con i 13 capi-dicastero della curia romana, per imprimere una svolta dinamica, di taglio riformista, e mantenere la disciplina tattica, d’impronta dirigista.

Un sinodo bergogliano a tutti gli effetti, che non si accontenta etimologicamente di “camminare” insieme ma in “Compagnia”, con la c maiuscola, mutuando una combinazione ambivalente, anch’essa ignaziana, di esperimenti audacemente decentrati e comandi, o comandamenti, tenacemente accentrati.

“Che differenza c’è, ditemi, tra il portare piume in testa e il tricorno che usano alcuni ufficiali dei nostri dicasteri?” La censura sferzante, stizzita del sarcasmo in talare, reo di avere irriso i nativi ospiti del Papa e invitati al sinodo, offre immediata misura degli ottomilaottocento chilometri che distanziano Manaus, con le sue liturgie variopinte, festose, povere di preti ma ricche di fedeli, e Roma, con le sue celebrazioni fastose, autoreferenti, farcite di officianti ma svuotate di gente.

Bergoglio, annotavamo all’inizio, ha rimontato un gap. Su di lui tuttavia nel frattempo, a imitazione del lungometraggio Roland Joffe, hanno gravato avvisaglie di guerra e stridio di ferraglie, un tintinnio di spada e un levar di scudi, nella cornice di una curia inquieta, distratta, dilaniata e in altre faccende affaccendata. Tra ispezioni e interdizioni, dichiarazioni e dimissioni, pronunce e denunce. Più che un Vatileaks un Vaticlash - con neologismo da noi coniato tre anni fa su queste pagine - dove i protagonisti escono allo scoperto e ingaggiano eclatanti, sconcertanti duelli al sole, transitorio e precario, dell’ottobre romano.

Il Rio delle Amazzoni, con la vitalità intensa dei suoi abitanti e la portata immensa dei suoi problemi, lambisce le rive anziane, vetuste del Tevere, forzando gli argini del magistero e obbligandolo ad ampliare gli orizzonti.

Ma l’istituzione, con i suoi ministeri e i suoi misteri, ha perso l’appuntamento con la storia, sulla falsariga delle corti, esauste, del tardo Rinascimento, quando intorno a loro cresceva e incombeva un mondo nuovo. La Chiesa del papa ignaziano ha messo le piume, non le ali. E al re, nudo, non resta che affrontare francescano, a piedi e mani, le rapide del tempo, frenato dal peso del suo potere terreno e sospinto dal richiamo del suo Signore divino. (Huffington Post)


Piero Schiavazzi

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