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Progetto Eldorato: La veste dei migranti simbolo di una Chiesa aperta e accogliente verso tutti

di Domenico Marcella
Credit Foto - www.giovannidegara.org

Da un po’ di tempo, l’artista fiorentino Giovanni de Gara firma delle installazioni site-specific che utilizzano come materia prima un oggetto salva-vita: le coperte isotermiche normalmente usate per il primo soccorso in caso di incidenti e calamità naturali, entrate nell’immaginario collettivo come “veste dei migranti”. Il dettaglio non trascurabile è che il progetto Eldorato (così ha scelto di chiamarlo) prende forma e sostanza sulle porte dei luoghi di culto della cristianità. Il motivo ce lo spiega l’artista stesso.

 

Giovanni, perché hai scelto come supporto le porte delle chiese?

 

«La porta è un elemento architettonico che, per le sue funzioni pratiche e simboliche, accomuna l’architettura sacra e quella civile, racchiudendo un’incredibile molteplicità di funzioni palesi e di simbolismi non sempre espliciti. La porta è stata usata per enfatizzare i riti e i momenti di passaggio tra stati diversi della condizione umana. La porta ha poi contemporaneamente la funzione di dividere due ambienti spazio-temporali e di consentire il passaggio da uno all’altro. In questo momento di chiusura la porta assume quindi numerosi significati».

 
Com’è nato il progetto?

 
«Il progetto è nato per l’Abbazia di San Miniato al Monte di Firenze che l’anno scorso festeggiava i mille anni dalla fondazione. L’idea di lavorare sulle porte come segno di apertura al diverso e al bisognoso e sulle chiese come simbolo di accoglienza verso tutti – senza distinzione di sesso, genere, credo e razza – mi è venuta all’inizio del 2018. Poco dopo, Salvini ha annunciato la chiusura dei porti e le porte di Eldorato sono diventate anche una dichiarazione di aderenza ai valori del Vangelo, una testimonianza della vera ricchezza della chiesa: la sua capacità di splendere di un oro povero, salvifico e inclusivo».

Perché Eldorato?

 
«Viviamo nell’epoca delle fake-news e delle contraffazioni, del complottismo e delle false speranze, e da questo prende forma il nome del progetto. Eldorato è infatti un’evidente distorsione del nome del luogo immaginario per eccellenza (l’Eldorado) ed  è stato deformato come viene deformata la realtà dei fatti, specialmente in materia di immigrazione. Sul piano etimologico, esso deriva dal termine ebraico "El " - che significa Dio - il Dio Dorato, riferimento ultimo di chi, abbandonando la propria terra e una parte di sé, arriva a una Terra Altra, madre in spirito. Una terra che, in una visione interiore, concede generosa la possibilità di ripartire e realizzare se stessi».

L’arte nel corso degli anni ha espresso di tutto. La tua non è un arte sacra, ma esprime lo spesso i valori della cristianità.

 
«Il messaggio che queste porte dorate trasmettono è il messaggio del Vangelo. Un messaggio di pace, di speranza, di uguaglianza, di misericordia per chi ne ha più bisogno ed è più fragile. É questa misericordia il vero splendore della chiesa e della vita di ognuno di noi. Queste porte dorate raccontano anche la trasformazione che Dio provoca in noi. Se da lontano si può vedere solamente la luce dorata riflessa e tremolante del telo sulla porta, avvicinandoci, invece, sulla superficie dorata iniziamo a specchiarci:  all’inizio ci vediamo confusi, deformati, ma più ci si avvicina più i nostri corpi vengono messi a fuoco, fino a rifletterci completamente un istante prima di entrare. É questo il momento in cui incontriamo Dio e ci riconosciamo come suoi figli e come parte di lui ed è qui che saremo in grado di amare come lui ha fatto con tutti noi, senza distinzione, senza giudizio, con amore indiscriminato. Queste porte dorate annunciano le porte d’oro del Paradiso e ci ricordano che anche qui in terra risplende quella luce che è origine e fine di tutto. Quello dell’oro è un simbolo che da sempre accompagna la storia dell’umanità e quella della Chiesa: i fondi oro dei quadri e le decorazioni delle sculture raffiguravano lo splendore di Dio. É questo lo splendore che il progetto Eldorato attende e annuncia, anche se tutto sembra andare in un’altra direzione. Una direzione in cui chi arriva sulle nostre terre sperando di trovare una “terra dell’oro” fatta di pace, lavoro e benessere, nel migliore dei casi trova solo l’oro di una copertina isotermica».

È un segnale positivo che l’arte, dopo anni di provocazione, abbia scelto di ricalcare e rivendicare i valori umani?

 
«Quando i valori umani vengono attaccati e messi in discussione come in questo periodo, l’arte ha l’obbligo di prendere una posizione forte, non tanto per esprimere un giudizio morale – cosa che l’arte dovrebbe evitare – quanto perché sono proprio la diversità e l’integrazione di elementi differenti che spesso generano le migliori opere d’arte. Il chiudere e limitare le contaminazioni depotenzia notevolmente sia l’arte che l’evoluzione umana».

In un momento storico come questo è un segnale forte…

«Lo sarà se si capisce che il messaggio del progetto non è una critica o un invito a essere buoni e giusti, ma un invito a comprendere che quella dell’accoglienza del diverso da sé è l’unica strada umanamente percorribile. É una via stretta e piena di incognite, ma per questo più avvincente e gratificante. Chiudersi porta all’assedio, e tutto si ferma, mentre fuori il mondo va avanti lasciandoci indietro».

Hai installato in molte città, su molti luoghi iconici della cristianità. Quale esperienza ti ha procurato più emozione?

«A San Miniato al Monte, perché è la mia chiesa preferita e ci vado spesso. É una chiesa di 1000 anni rimasta sempre uguale a se stessa, è visibile come un faro da tutta Firenze e dopo un millennio di storia immutata ho potuto cambiare la sua facciata, usando un materiale povero e al tempo modernissimo che l’ha illuminata per qualche settimana. A Napoli ho trovato una grande accoglienza, ho fatto molte chiese e ho trovato preti e pastori di grande umanità. A Venezia ho lavorato nella cappella del carcere maschile di Venezia, luogo di accoglienza per eccellenza degli ultimi, dei peccatori, degli abbandonati, ma territorio gestito dal ministro della sicurezza. A Palermo ho trovato un amico e un importante punto di riferimento nel sindaco Leoluca Orlando, esempio eccellente della classe politica che vorrei avere, umana e terribilmente colta.  Faccio fatica a scegliere una tappa sola perché Eldorato è un viaggio continuo nell’umanità dolente di chi soffre e nel coraggio di chi resiste quotidianamente alla tentazione di scegliere di chiudersi in se stesso. E ad ogni tappa il progetto di arricchisce grazie al confronto con le comunità che lo ospitano e con le persone che via via si uniscono al cammino».

Sei partito da Firenze, e sogni concludere il percorso sulla soglia di San Pietro.

«Il mio sogno è di consegnare nelle mani di Papa Francesco questo progetto e le storie di tante comunità cristiane e civili che ne seguono l’incessante richiamo. Portare Eldorato a San Pietro significherebbe dare una voce universale a una chiesa che – nelle grandi città così come nei piccoli paesi che il progetto ha toccato – ha il coraggio e la forza di annunciare al mondo che l’unica via verso la salvezza è l’amore verso l’altro, il bisognoso e il diverso. E non la chiusura predicata a colpi di crocifissi branditi nei comizi».


Domenico Marcella

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