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Roma, l'ospedale Bambino Gesù compie 150 anni. Un mondo di bambini da salvare

Credit Foto - Avvenire

Tutto cominciò da un salvadanaio di terracotta. Un 'dindarolo' contenente il gruzzoletto di risparmi che il duca Scipione Salviati, sua moglie Arabella e i figli decidono di rompere nel 1869 per aiutare i bambini ammalati di Roma. Un gesto che ha innescato una rete di donazioni diventate anno dopo anno 'mattoni' di solidarietà per costruire il Bambino Gesù. Il senso di quella struttura di Roma dedicata unicamente ai bambini era racchiusa in quell’unico foglio – che mostriamo in anteprima in questa pagina – con il primo regolamento dell’ospedale dei fanciulli.

A viverlo sulla loro pelle quattro bambine colpite da scrofola (forma di tubercolosi), le prime degenti dell’ospedale, curate da quattro suore vincenziane, tre medici, tre infermieri e un portantino in una stanza accanto all’orfanotrofio dei Santi Crescenzio e Crescentino in via delle Zoccolette (sulla riva sinistra del Tevere). Da allora sono passati 150 anni e quella stanza per la cura dei bambini di Roma è diventata un centro pediatrico internazionale di riferimento organizzato su quattro poli (Gianicolo, San Paolo, Palidoro e Santa Marinella).

In totale si contano 607 posti letto, 22mila ricoveri ogni anno, 339 trapianti, 22mila giornate di day hospital, 80mila accessi al pronto soccorso e oltre un milione e 700mila prestazioni ambulatoriali. Ma, al di là dei numeri, è soprattutto diventato 'l’ospedale del Papa', in cui arrivano da tutto il mondo bimbi malati da salvare. Così martedì prossimo alle 11 a Roma, nella sede di San Paolo fuori le Mura, l’ospedale Bambino Gesù celebrerà i suoi primi 150 anni. A rendere omaggio a questo traguardo e alla sua storia il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro della Salute Giulia Grillo, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il sindaco di Roma Virginia Raggi.

A fare gli onori di casa invece sarà la presidente dell’ospedale Bambino Gesù Mariella Enoc, dal 2015 al vertice del centro pediatrico. Solidarietà, eccellenza, ricerca scientifica sono ormai diventati i tratti distintivi di un secolo e mezzo di vita dell’ospedale dei bambini. Ma a restare intatto negli anni in corsia è il dono originario che si rinnova nel tempo, quella missione di alleviare le sofferenze dei più piccoli non solo con le tecniche d’avanguardia in ogni epoca storica ma con la forza dell’umanità.

Il Bambino Gesù lo ha fatto sin dalla nascita, così come durante la prima guerra mondiale – già nella sede del Gianicolo – curando l’epidemia di meningite cerebro-spinale, di vaiolo nero e di influenza spagnola. Un’accoglienza che è continuata anche durante il secondo conflitto mondiale, quando vennero aperte le porte dell’ospedale a ebrei e rifugiati politici. E, con un salto di molti decenni, il Bambino Gesù continua a farlo con i fanciulli di oggi. Pensiamo ad Alex, il bimbo di 20 mesi arrivato in condizioni disperate (non si trovava un donatore compatibile) dal Great Ormond Street di Londra con una grave malattia genetica (la linfoistiocitosi emofagocitica hlh) e sottoposto il 20 dicembre scorso a trapianto di cellule staminali emopoietiche da genitore. O ancora ai tanti piccoli che saranno curati nell’ospedale di Bangui appena inaugurato nella capitale centrafricana, fortemente voluto da papa Francesco e realizzato con il sostegno del Bambino Gesù, anche per la formazione dei medici.

E se si prova a sfogliare indietro le pagine delle 'prime volte', viene alla mente la storia di Saverio malato di distrofia che nel 2010 ha sentito battere nel suo petto di quindicenne un cuore artificiale con batteria ricaricabile posta dietro l’orecchio. E il suo è stato il primo impianto di cuore artificiale permanente al mondo, eseguito su paziente pediatrico portatore di distrofia di Duchenne. Fece parlare anche la storia della separazione nel 2017 delle gemelline siamesi del Burundi, Francine e Adrienne, che seguì di poche settimane quello delle sorelline algerine unite per il torace e addome Rayenne e Djihene.

Alessia Guerrieri, Avvenire 



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