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Thomas Bernhard e gli affetti. Nessun tesoro riempie la vita

Antichi Maestri, un testo paradossale e commovente che ci parla della fragilità umana

Credit Foto - Omnimilano - Repubblica.it

Da trent’anni, una mattina sì e una no, Reger — ha ottantadue anni e scrive critiche musicali per il «Times» — si accomoda su una panca della Sala Bordone al Kunsthistoriches Museum di Vienna e guarda per ore L’uomo dalla barba bianca, un celebre quadro di Tintoretto. La panca gli è praticamente riservata, perché il guardiano della sala, tale Irrsigler, uno dei tanti imbecilli per bene che vengono dal Burgenland e come unica aspirazione nella vita hanno quella di indossare una qualsiasi divisa, impedisce agli altri visitatori di sedervi.

Il pomeriggio, Reger va all’Ambassador, dove ha un tavolo riservato, e ordina sempre la stessa pietanza, cioè il manzo col brodo. Adesso, nella sala Sebastiano, accanto alla Sala Bordone, Atzbacher, un signore col quale ha fatto la conoscenza il giorno prima, lo sta osservando. Dovranno incontrarsi alle undici e mezzo, secondo l’appuntamento. Atzbacher spia Reger e Irrsigler. Passa un ora. Vengono le undici e mezzo, e noi entriamo nel cuore del romanzo forse più intenso, più disperato e commovente dello scrittore e drammaturgo austriaco Thomas Bernhard, Antichi Maestri, che Adelphi lodevolmente ripropone a circa trent’anni dalla sua prima apparizione in italiano.

Siamo nel cuore del romanzo, perché nel frattempo Atzbacher si è seduto accanto a Reger (accudito da Irrsigler) davanti al capolavoro di Tintoretto, e Reger gli sta spiegando che lui non ama affatto Tintoretto (glielo dirà dopo il motivo per il quale una mattina sì e una no viene lì), anzi non ama nessuno dei cosiddetti capolavori custoditi in quel museo viennese che non è altro se non la rappresentazione visiva della mentalità statalista e cattolica che fa dell’Austria un Paese orribile e disgustoso, come è orribile e disgustosa la sua gente, non solo gli imbecilli del Burgenland.

Per di più — è sempre Reger che parla — lui è convinto che non esiste capolavoro nell’arte, nella pittura, nella letteratura, nella musica, nella filosofia, mai, dal momento che in ogni cosiddetto capolavoro o opera dell’ingegno c’è sempre un errore, la perfezione non esiste (prendiamo quel piccolo borghese tragicomico di Heidegger, quel budino insapore di Stifter, lo scrittore di romanzi che piacciono alle signore, per non parlare del sentimentalismo e dell’enfasi ipocrita di Bruckner, di quel ciccione puzzolente di Bach, e dell’insopportabile Mahler che adesso va di moda).

Tutti costoro, continua Reger, non sono affatto dei geni. Se lei, Atzbacher, osserva a lungo un quadro, per esempio un autoritratto di Rembrandt, «non c’è dubbio che esso a poco a poco si trasformerà in una caricatura»; se legge e rilegge una frase di Goethe o un pensiero di Kant, «vedrà che tutto a un tratto scoppierà in una risata convulsa». Qualunque opera d’arte, ribadisce Reger, può essere ridicolizzata: lei se la trova davanti in tutta la sua imponenza e di colpo si ridicolizza. Diventa ridicolo Ludwig van Beethoven, diventano ridicoli i pittori del Cinquecento veneto con gli angioletti attaccati per le ali a quei cieli smunti, diventano ridicole le cattedrali. Ridicoli, del resto, sono tutti.

Io, dice Reger, vivo in mezzo agli esseri umani, non potrei vivere senza gli esseri umani intorno a me (mentre la natura la detesto, non mi interessa), ma lo faccio perché sono attratto dal disgusto che mi provocano gli esseri umani, e in particolar modo gli uomini di questa Austria dalla quale è sorto il nazismo, di questa città, Vienna, che è la città più sporca d’Europa, basta vedere le sue latrine. Se vengo qui al mattino e poi vado all’Ambassador (dove la toilette è pulita), è perché qui, su questa panca penso, e il pomeriggio mi rilasso. Insomma, dice Reger, per pensare e per continuare a esistere è qui che devo venire, da questi cosiddetti Antichi Maestri che detesto totalmente. In realtà, Atzbacher, io cammino per le strade di Vienna e la detesto, ma non è soltanto questa città che detesto, è il mondo nel quale oggi viviamo che detesto, perché è un mondo ottuso, volgare, popolato da un’umanità ottusa e volgare.

Vede, Atzbacher, dice Reger, noi siamo proiettati dall’infanzia in questo mondo come in un buco nero. L’infanzia è l’unico momento di felicità della nostra vita. Poi, la felicità sparisce. Io, su questa panca, trenta anni fa, ho conosciuto mia moglie. La giornata era cupa, ero disperato, mi occupavo soltanto di Schopenhauer, leggevo una fase di Schopenhauer e ci meditavo su, seduto su questa panca, quando una sconosciuta si è seduta accanto a me, e un po’ siamo stati zitti; poi io le ho chiesto se le piaceva L’uomo dalla barba bianca di Tintoretto, lei è rimasta ancora in silenzio, a lungo, e finalmente ha detto semplicemente: «No». E io un no così affascinante non lo avevo mai sentito. Infatti l’ho sposata. E dal giorno che l’ho sposata mia moglie è venuta con me, una mattina sì e una mattina no, a sedersi su questa panca, davanti a questo quadro. Finché una mattina, a causa del terreno sdruccioloso che la municipalità di Vienna non aveva rimesso in ordine, mia moglie è caduta, si è fatta molto male, l’ambulanza è arrivata tardi e all’ospedale è morta e io sono solo.

Ora, dice Reger, tutti gli Antichi Maestri non contano nulla rispetto all’essere umano che ti ha riempito la vita. Altro che spiriti sublimi! Sono un cassetto vuoto, se pensi alla donna che hai amato e ti ha riempito la vita. Io, dice Reger, quando lei è morta, mi volevo suicidare. Poi non l’ho fatto. Avrei dovuto farlo subito e non l’ho fatto.

Sono tornato a casa, invece, ho aperto i «suoi cassetti», ho tirato fuori tutto quello che dentro c’era di lei, e ho cominciato a piangere disperatamente. Leggevo le sue lettere e piangevo disperatamente. Guardavo i suoi vestiti (che poi la nostra cameriera mi ha portato via in sacchi da cento chili) e piangevo. Tutte le mie lacrime piangevo, perché lei non c’era più. Così — conclude Reger alla fine del meraviglioso racconto che alla fine si legge piangendo — non mi resta che venire qui, un giorno sì e uno no, e stare seduto sulla panca dove lei, per trent’anni, mi è stata seduta vicino.

Giorgio Montefoschi - Corriere.it



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