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La polveriera del Sud America, ecco cosa sta accadendo

Dal Cile alla Bolivia passando per il Venezuela: il professor Gianni La Bella spiega cosa succede

Credit Foto - EPA/Martin Alipaz

Alla base di tutto c’è l’instabilità economica. Venezuela, Cile, Colombia, adesso la Bolivia: ovunque, in America Latina, scoppiano rivolte. Abbiamo chiesto a Gianni La Bella, professore di storia contemporanea all’università all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, di spiegarci cosa sta accadendo.


Professore, che succede nel Sud America?

Quella del Venezuela è una crisi che viene da lontano, non riconducibile a quello che sta accadendo negli altri Paesi dell’America Latina: un concatenarsi di rivolte iniziate in Cile, estese successivamente alla Bolivia e con risvolti in Ecuador.Questi tre paesi hanno visto un ritorno alla rivolta di massa, la gente è tornata in piazza, in particolar modo i giovani. In Ecuador e Bolivia a protestare è prevalentemente il mondo indigeno. Le proteste nascono attorno a due grandi problemi. Da un lato un’eccessiva privatizzazione della struttura educativa e universitaria in Cile, iniziata già negli anni della presidenza di Michelle Bachelet. Le scuole e le università cilene sono tutte private. La struttura pubblica è praticamente morta. Gli studenti hanno preso al balzo la notizia dell’aumento del prezzo della metro di soli 4 centesimi: esprimono l’insoddisfazione degli ambienti giovanili a vedere negato il proprio futuro in una struttura educativa chiusa, senza possibilità. Il loro disagio ha fatto da detonatore a un malessere latente, generale, che ha prodotto una rivolta di natura sociale. Non a caso, pochi giorni fa, il ministro dell’Interno cileno ha dato il via a un processo di revisione della Costituzione, per una maggiore partecipazione in chiave democratica.
Anche in Ecuador le proteste sono di natura sociale e la crisi parte dal modello economico centrato sul valore delle materie prime. In Bolivia tutto è iniziato nel 2015 quando Morales ha forzato la Costituzione scritta dal suo stesso governo per ottenere un quarto mandato presidenziale. Ma non solo: ha ignorato il risultato del referendum del 2016, che aveva dato parere negativo alla possibilità di un quarto mandato. Lui si è ripresentato lo stesso, con evidenti brogli elettorali riconosciuti da diverse associazioni internazionali. È un Paese un po’ particolare la Bolivia, che ha conosciuto nella sua storia contemporanea, dopo l’indipendenza ma in particolare nella seconda metà del Novecento, una serie di consistenti colpi di Stato, quasi 70, quindi un Paese dove i militari dell’esercito hanno un ruolo fondamentale. Ma si tratta di un esercito popolare, cioè i soldati vengono dagli stessi ambienti sociali dei dimostranti. Nelle manifestazioni che hanno spinto Morales a dimettersi, esercito e dimostranti si sono ritrovati affratellati: è stato a quel punto che il presidente ha capito di non poter più andare avanti e si è dimesso. Chiaramente dietro tutto questo ci sono anche interessi di natura politica. Poi bisogna tener presente che la Bolivia va a due velocità; la maggioranza del Paese ha tradizioni indigene ma c’è una minoranza bianca molto importante, attualmente rappresentata dalla figura di Carlos Mesa. In più, adesso, insieme a Morales se ne sono andate tutte le più alte cariche dello Stato, quindi non c’è governo. Attendiamo le nuove elezioni.

Quale sarà il prossimo Paese che, secondo lei, entrerà in crisi?

Sono convinto che il Sud America sia entrato nuovamente in un ciclo storico di grande turbolenza. Il Venezuela vive una condizione di instabilità permanente; è molto ricco, attualmente la più importante riserva petrolifera del mondo da un punto di vista quantitativo, ma la crisi prodotta dal regime di Maduro ha portato anche a un’emigrazione di quasi 6 milioni di venezuelani, una cifra immensa. Non ci sono medicinali, la situazione è allo sbando e così il Paese rischia di trasformarsi in una sorta di Libia, una realtà paralizzata in una crisi istituzionale tra governo e opposizione che gli impedisce anche di cercare una soluzione per uscire dalla crisi. Poi c’è la Colombia, dove per fine novembre è stata indetta una grandissima manifestazione sociale: contano di portare in piazza 2 milioni di persone. L’accordo di pace sottoscritto qualche anno fa da Santos con le Farc è stato rimesso in discussione dal governo dell’attuale presidente; alcuni gruppi dissidenti delle Forze armate rivoluzionarie sono tornati di nuovo nella foresta amazzonica e organizzano guerriglie, il mondo dei paramilitari si è di nuovo organizzato così come una serie di gruppi criminali dediti al narcotraffico e al traffico di smeraldi. Perciò anche la Colombia, più stabile, rischia di cadere in un conflitto sociale senza precedenti. In tutto questo va detto che l’America Latina è in un momento di forte recessione quindi tutto quel benessere che in parte si era prodotto negli anni precedenti a causa dell’alto valore delle materie prime, adesso è più o meno morto. Nei primi anni di Morales, in Bolivia si era parlato persino di miracolo, di capitalismo andino perché in quegli anni si era riusciti a ridurre la forbice tra indigeni e bianchi e attuare politiche di contrasto alla povertà; molte persone, in quel periodo, hanno trovato la via del benessere. Ora è diverso.

Il Sudamerica è quindi una polveriera in questo momento…

In questo momento sì. E non abbiamo accennato al Centro America, dove da un lato c’è una situazione simile a quella venezuelana per quanto riguarda il Nicaragua - dove il regime è in mano alla famiglia Ortega, che governa il Paese come se fosse un’azienda di famiglia, in un conflitto sociale e politico ma anche in un clima di oppressione militare - e Paesi come Salvador e Honduras in preda a una grandissima crisi sociale provocata da bande criminali che terrorizzano le periferie e arruolano giovani per il commercio della droga, in una spaventosa situazione di violenza che sta portando questi Paesi al “Tiempo del miedo”, la stagione della paura. C’è poi il Messico, dove si contano circa 46mila morti l’anno, frutto del clima di violenza sociale. L’America Latina è una di quelle parti del mondo dove la famosa espressione di Papa Francesco “non c’è la terza guerra mondiale ma c’è una guerra mondiale a pezzi” è vera. È una nuova forma di guerra, chiamiamola guerra quotidiana.

La Chiesa e le associazioni cosa possono fare o cosa stanno facendo?

Svolgono una funzione chiave. Innanzitutto è importante capire che l’America Latina non ha una grande tradizione di corpi intermedi come l’Italia (sindacati, associazioni, movimenti eccetera). C’è l’individuo e c’è lo Stato. La Chiesa in molti di questi contesti - Venezuela, Nicaragua, Colombia, Bolivia - è coscienza del Paese. Perciò da una parte richiama processi di democratizzazione e sorveglia sull’applicazione dei diritti dell’uomo, dall’altra esercita un vero e proprio ruolo di pacificazione, mediazione e riconciliazione, che non può essere svolto da nessun altro perché parliamo di società profondamente spaccate al loro interno.

Roberto Pacilio



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