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II OPERA DI MISERICORDIA CORPORALE, DAR DA BERE AGLI ASSETATI

di Grado Giovanni Merlo

Nel Cantico delle creature o Cantico di frate Sole frate Francesco sollecita, tra l’altro, la lode al suo Signore “per sor’acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta”. La successione degli aggettivi alterna valori non tutti usuali. Sull’utilità e sula preziosità non vi può essere che consenso; ma, accostandovi l’umiltà e la castità, ossia la purezza, siamo portati in una dimensione ‘pacificata’, poiché l’acqua può pure, al contrario, essere sporca e tumultuosa con le conseguenze negative che si possono agevolmente immaginare. Sembrerebbero derivarne precisi compiti per l’umanità tenuta a impedire il deterioramento di un bene naturale dal carattere positivo sia pratico sia simbolico. Non possono gli assetati bere acqua sporca.

Lo si comprende forse meglio in un episodio che frate Bonaventura da Bagnoregio ha ritenuto di descrivere nella sua Leggenda maggiore. Il racconto è semplice: frate Francesco, volendo raggiungere un luogo solitario “per dedicarsi più liberamente alla contemplazione”, ma non essendo nel pieno delle sue forze, si fa trasportare da un asinello di un “uomo povero”: il quale lo segue a piedi. La strada è lunga e faticosa. Improvvisamente, per la sete, l’uomo si sente mancare: deve bere. Frate Francesco scende dalla cavalcatura e prega, finché è in grado di dire all’uomo di avvicinarsi a una roccia dove “Cristo, nella sua misericordia, ha fatto sgorgare dalla pietra (…) acqua viva”.

Qui non interessano le considerazioni teologiche formulate in seguito nel testo da frate Bonaventura. Sia sufficiente soffermarsi sulla immediata ed efficace risposta di frate Francesco a una ineludibile necessità del suo accompagnatore, che ricordiamo è “povero” e sul fatto che il “miracolo” genera “acqua viva”: espressione che ribadisce il duplice valore dell’elemento naturale, così fonte di vita terrena come simbolo trascendente, purché “humile et pretiosa et casta”.


Grado Giovanni Merlo

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