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Dio me l'ha data, guai a chi la tocca: quando Dio diventa uno slogan

di Antonio Tarallo
Credit Foto - Il Tempo

Ormai, da un po’ di tempo e soprattutto in questi giorni frenetici per il panorama politico italiano, imperversa sia sui giornali, sia nei dibattiti politici (e non solo) la polemica dell’uso strumentale di certi “simboli”, di certi “segni” più che esplicitamente legati al Cristianesimo. Senza entrare in merito, nella speranza che ogni lettore si sia fatta la sua idea, bisogna pur dire – a onor del vero – che certamente non è la prima volta che gli uomini politici abbiano attinto al “vocabolario cattolico” (definiamolo così) per condurre le loro “battaglie”.

Diciamo pure che, nel corso della Storia, troppe volte si è “tirata la giacchetta” (mi si passi il termine) addirittura a Dio, non contenti di farlo già con uomini di potere o di cultura. Gli slogan hanno fatto parte  – da sempre – dell’agorà politica, di tutti i tempi. Cerchiamo, allora, di fare una breve sintesi di questi episodi.

Deus lo volt, Dio lo vuole

“Deus lo volt” o “Deus le volt” (dal latino Deus vult) è il motto gridato da Pietro l'Eremita, nelle sue predicazioni, per arruolare crociati alla volta del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il suo ruolo di iniziatore della Prima Crociata – e ancor prima, della Crociata detta “dei pezzenti” – sarebbe stato sancito da una visione avuta nel 1093 nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme: Cristo stesso gli avrebbe ordinato di recarsi dal Patriarca di Gerusalemme e poi in Europa per predicare la liberazione dei luoghi sacri in Terra Santa, e mettere così termine alle persecuzioni contro i pellegrini. Fu proprio il grido “Dio lo vuole”, a sollevare l'entusiasmo di circa 12.000 cristiani che si posero in marcia nel maggio 1096. Gerusalemme fu presa il 15 luglio 1099, e Pietro diventò elemosiniere dell'esercito crociato vittorioso. Il suo sermone sul Monte degli Ulivi fu seguito dal saccheggio della città e dai massacri degli inermi abitanti della Città Santa.


In hoc signo, vinces


Il motto risale a uno dei sogni più strani e più famosi dell’antichità, quello dell’imperatore romano Costantino, impegnato in una delle più grandi battaglie della sua vita. Costantino il Grande (27/02/274 d.C. – 22/05/337 d.C.), conosciuto per essere il primo imperatore romano cristiano. Prima della sua conversione, convinto pagano, Costantino era assai devoto del dio del sole, “Sol Invictus”, così il nome latino.


Fu la battaglia di Ponte Milvio a cambiare il corso della sua vita, e quello dell’Impero romano. Era il 27 ottobre 312 d.C. e  Costantino si trovava di fronte all’esercito rivale, capeggiato da Massenzio. Poche speranze per lui e l’esercito romano, per vincere la battaglia. Abbiamo due versioni dell’episodio: secondo Eusebio – nella sua “Vita Constantini” – il famigerato “In hoc signo vinces” (unitamente a una croce fiammeggiante) sarebbe apparso in sogno all’imperatore romano, poco prima che dalla Gallia muovesse alla volta di Roma contro Massenzio; secondo Lattanzio, invece – nel suo “De mortibus persecutorum” – Costantino avrebbe avuto la visione in sogno alla vigilia della battaglia decisiva di Ponte Milvio.


Tutti invece concordano sul fatto che Costantino, dopo la visione, fece incidere sui labari dei soldati la lettera greca “chi”, il simbolo del Dio  cristiano. Lo storico della Chiesa, Filostorgio (nato circa il 368 a Borisso in Cappadocia, morto circa nel 439), propose un’interpretazione astronomica del “segno celeste”. In tempi assai più recenti Fritz Heiland del Planetario di Jena avanzò, nel 1948, l’ipotesi che la visione potesse essere interpretata come una congiunzione planetaria.Nel 1948, Fritz Heiland, dello Zeiss Planetarium di Jena, pubblicò una interpretazione della visione di Costantino, come conseguenza di una congiunzione planetaria. Lo studio di Heiland concentrava l’attenzine sul fatto che nell'autunno del 312, tre pianeti luminosi, Marte, Saturno e Giove si trovarono allineati fra il Capricorno e il Sagittario. 


La congiunzione astrale poteva essere interpretata dalle truppe come un presagio sinistro, e – secondo sempre Heiland – Costantino avrebbe tramutato quella “strana congiunzione” nel famoso “ἐν τούτῳ νίκα”, questo l’originale greco della frase poi tradotta in latino “In hoc signo vinces”.


Parigi val bene una messa


Chi non conosce questa espressione? La celebre frase fu pronunciata da Enrico di Navarra, verso la fine del '500, periodo in cui la Francia era devastata da una terribile guerra civile conosciuta come la “guerra dei tre Enrichi”: Enrico di Guisa, Enrico III e appunto Enrico di Navarra. Dopo anni di sanguinosa guerra, vinse Enrico di Navarra, divenendo così il primo monarca del ramo Borbone a prendere il trono di Francia.  Divenne, però, necessario per il futuro re – che era ugonotto e di religione protestante – convertirsi al cattolicesimo per poter salire sul trono di Francia. Ed è proprio prima di farsi cattolico, che Enrico IV pronunciò la famosa espressione "Parigi val bene una messa": rinunciare alla sua fede protestante “valeva la pena” pur di  conquistare il regno di Francia.

Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca


26 maggio 1805, Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, diventava re d’Italia. Ricevendo la corona, pronunciò la storica frase: “Dio me l'ha data, guai a chi la tocca”. L’avventura napoleonica raggiunse all’epoca la sua apoteosi. Pochi mesi prima, il 2 dicembre 1804, nella cattedrale di Parigi, Notre Dame, Napoleone si era autoproclamato imperatore. Questa volta il luogo è il Duomo di Milano, che vede il novello Carlo Magno, Napoleone, porsi da solo la corona ferrea dei re Longobardi, custodita nel Duomo di Monza. Alla presenza di sedici vescovi (il Papa si era rifiutato), a una moltitudine festosa, e davanti alle autorità francesi, l’ateo e anticlericale Napoleone Bonaparte (solo nell’esilio di Sant’Elena avverrà nel suo animo un “cambio di rotta”), prese la corona ferrea dei re longobardi e se la pose sul capo, autoproclamandosi re d'Italia.


“A volte mi sembra che ogni parola che viene detta e ogni gesto che viene fatto accrescano il grande equivoco. Allora vorrei sprofondare in un gran silenzio e vorrei anche imporre questo silenzio agli altri. Sì, a volte qualunque parola accresce i malintesi su questa terra troppo loquace
. Forse, queste profetiche parole tratte dal diario della scrittrice olandese Etty Hillesum, potrebbero essere un più che valido invito a riflettere, prima di parlare. Soprattutto se viene fatto “il nome di Dio”. O, meglio, se viene fatto “in nome di Dio”. 


Antonio Tarallo

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