Le origini del “Padre nostro”. Il Vangelo di Matteo e Luca e la tradizione ebraica
qual è l’origine di questa preghiera, fondamentale “monumento” della Cristianità tutta?
di Antonio Tarallo
“La traduzione è sbagliata, perché Dio non ci può indurre in tentazione”, così si era espresso Papa Francesco, parlando della preghiera “per eccellenza” del Cristianesimo, nel dicembre 2017. E, come sappiamo tutti, la Cei (Conferenza episcopale italiana, l’organo di governo dei Vescovi, per intenderci) proprio in questi giorni, ha formalizzato il cambiamento – tanto auspicato dal pontefice – di una parte dell’importante preghiera. L’Assemblea Generale della Cei, infatti, ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato ben oltre 16 anni. Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza. Una volta ottenuti, andrà in vigore, il nuovo testo, con anche la nuova versione dell’inizio del “Gloria”. Tanto per ricordarlo – così incominciamo anche a fare un po’ di pratica, non guasta certo – il cambiamento della traduzione riguarda la seguente frase: “Non ci indurre in tentazione”, che verrà sostituita con “non abbandonarci alla tentazione”.
Ma qual è l’origine di questa preghiera, fondamentale “monumento” della Cristianità tutta? E’ alquanto interessante scoprire quanta “storia”, quanta origine-influenza yiddish sia in essa presente. Ovviamente, lungi dal dimenticare – ed è assai opportuno e importante ricordarlo, per non “cadere in errore” – che la preghiera del Padre Nostro, secondo appunto la Parola, è stata “dettata” dal Figlio di Dio, quindi per quella che può essere definita “ispirazione divina”. E, allora, partiamo dallo stesso Vangelo di Matteo, in cui al capitolo sesto, possiamo leggere:
“Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male”. Abbiamo già inserito la nuova formula del “non abbandonarci”.
Ma, come dicevamo, Matteo non è il solo a parlarci della preghiera che Gesù ci ha lasciato. Infatti, in Luca, capitolo undici, troviamo:
“Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione»”.
L’evangelista Matteoci regala una versione più ampia e strutturata, rispetto a quella più sintetica ed essenziale di Luca. Differenze che però non compromettono la loro unità sostanziale. E, tra l’altro, tutte e due sono lì a testimoniare di quanto questa fosse presente già nelle prime comunità cristiane. E’ sì presente una diversità lessicale, ma la materia risulta essere, dunque, la stessa in tutte e due le redazioni. Lucaha inserito la “preghiera” all’interno della sezione “Salita verso Gerusalemme” e l’ha collocata all’inizio di una breve catechesi sulla preghiera, il cui tema principale sembra quasi essere quello di educare alla fiducia: “Ebbene io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Lc11,9). Dunque, il “Padre nostro”, potremmo dire, non solo forma di dialogo con Dio, ma anche “preghiera” di fiducia nel Padre, nella nostra possibilità, in virtù di figli, di richiesta di vicinanza. Nella redazione di Matteo, invece, il brano si contestualizza nel discorso della montagna, in Galilea, dove Gesù presenta la “novità” di quel Regno che è “nei cieli”, come appunto la stessa preghiera, nel suo “incipit”.
Oltre a questa “testimonianza” viva del Vangelo, è necessario – però – addentrarci in quel prezioso “humus” nel quale Gesù, Figlio di Dio, sì, ma “anche” figlio di Maria e Giuseppe, è cresciuto e si è formato come uomo, e soprattutto come uomo ebreo. Per questa formazione, un ruolo chiave lo ha svolto – senza dubbio – la cultura, la spiritualità ebraica, tramandata dai suoi genitori. E’ difficile pensare alla famiglia di Nazareth, senza avere nell’immaginazione – e non può che trattarsi di immaginazione, di “presupposizioni”, visto che non ci sono testimonianze “concrete” a riguardo – le preghiere recitate nel particolare “focolare domestico”. Allora, forse, non è un caso se dietro ogni invocazione del Padre Nostro, è possibile riconoscere espressioni appartenenti alle preghiere ebraiche o dell'Antico Testamento.
Cominciamo, allora, appunto, con le prime due parole “Padre nostro” che, seppur coscienti della diversa concezione cristiana rispetto a quella ebraica del concetto di “paternità”, non possiamo negare quanto questa formula ricorda molto il “Facci tornare, Padre nostro, alla tua Torah...”(quinta e sesta benedizione) o, maggiormente, il “Padre nostro, Padre di misericordia, il Misericordioso”, che troviamo nella preghiera prima dello Shema “Ahavah rabbah”. “Che sei nei cieli”, termine assai ricorrente nella preghiera del “Kaddish” ebraico. Come sempre presenti in questo, proprio al suo inizio, le parole che molto ricordano il “nostro” “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”. Nella preghiera aramaica, troviamo: “Sia magnificato e santificato il suo grande nome. Venga il suo Regno”. Continuando nella recita del Padre nostro, abbiamo poi, “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. La preghiera del mattino yiddish, recita:“Tale possa essere la tua volontà, Signore... guidare i nostri passi nella Torah e farci aderire ai tuoi comandamenti”. “Dacci oggi, il nostro pane quotidiano”. Nella tradizione ebraica, e precisamente nella cosiddetta seconda benedizione, “Tu nutri ogni vivente per amore, per la tua grande misericordia”. “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Quanto risuona, in questa frase, Siracide, col suo “Perdona l'offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”. “Non abbandonarci alla tentazione”, e nella preghiera ebraica del mattino leggiamo “Non ci abbandonare nel potere del peccato, della trasgressione, dell'errore, della tentazione né della vergogna. Non lasciar prevalere in noi l'inclinazione al male”. “Ma liberaci dal male”, “Guarda la nostra miseria e guida la nostra lotta. Liberaci per il tuo Nome, perché tu sei il Liberatore potente”, così nella settima benedizione della tradizione ebraica.
Radici comuni di un unico grande albero, dalla folta chioma che si dirama “nei cieli”, “così in terra”. Un albero chiamato “Padre nostro”, sotto cui rifugiarsi, noi tutti, in un’unica grande famiglia, umana.
Antonio Tarallo
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