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L’altare della reposizione, ossia “i sepolcri”. Origine e tradizioni

ncora oggi è usato nel linguaggio popolare di alcune regioni d'Italia

di Antonio Tarallo
Credit Foto - wikimedia.org

Il termine sbagliato: “sepolcro”.

Partiamo dal termine “sepolcro”. Ancora oggi, questo, è usato nel linguaggio popolare di alcune regioni della nostra Italia, soprattutto nel Sud. Ma è importante precisare che andrebbe definito, più propriamente, “altare” o “cappella della reposizione”. L’altare corrisponde allo spazio della chiesa allestito al termine della funzione religiosa denominata “Missa in Cena Domini” del Giovedì Santo. In un’area diversa dal “Tabernacolo” – l’altare destinato a conservare le ostie consacrate – viene “allestito” questo particolare spazio, destinato ad accogliere, dopo la celebrazione della “Cena del Signore”, le specie eucaristiche consacrate, e a conservarle sino al pomeriggio del Venerdì Santo. Saranno poi distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale, al termine della liturgia penitenziale.


Vediamo, in merito a questo argomento, la Chiesa cosa dice. E’ un brano tratto dal capitolo quarto – dal titolo “Anno liturgico e pietà popolare” – del documento del “Direttorio sulla Pietà popolare e Liturgia della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti” (2001):


 “È necessario che i fedeli siano illuminati sul senso della reposizione: compiuta con austera solennità e ordinata essenzialmente alla conservazione del Corpo del Signore per la comunione dei fedeli nell’Azione liturgica del Venerdì Santo e per il Viatico degli infermi, è un invito all’adorazione, silenziosa e prolungata, del mirabile Sacramento istituito in questo giorno. In riferimento al luogo della reposizione, si eviti il termine di “sepolcro”, e nel suo allestimento, non venga conferito ad esso l’aspetto di un luogo di sepoltura; infatti il tabernacolo non deve avere la forma di un sepolcro o di un’urna funeraria: il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso, senza farne l’esposizione con l’ostensorio”.



Gli altari della Reposizione, la storia

La pratica di allestire gli altari della reposizione si è affermata in Europa già a partire dall’Età carolingia ed esprimeva – all’epoca – soprattutto l’idea del lutto e della sepoltura, partendo da una concezione particolarmente “pietistica”: nella meditazione della morte di Gesù, i Cristiani nell’Eucarestia, erano inclini ad adorare, proprio in questo particolare giorno di vigilia alla celebrazione della morte del Signore, l’Eucarestia come segno sì della Resurrezione, ma soprattutto come l’espressione della sofferenza, del martirio, del sangue versato di Gesù. Forse – parliamo di ipotesi – proprio da questo, nasce l’idea della denominazione “errata” di sepolcro che, come si scriveva all’inizio, ancora oggi è “in voga”.


Le tradizioni italiane per l’altare della reposizione

Prima tradizione popolare, che un po’ tutti conosciamo è quella della visita agli altari nella notte del Giovedì Santo.  A Roma, ad esempio, centro del Cattolicesimo, e dunque città ricca di chiese, va ricordata la “pia pratica” della “Visita alle sette chiese” (nata da San Filippo Neri) che però non ha nulla a che fare, sia chiaro con il Giovedì Santo. Ma, una certa tradizione popolare, rifacente proprio al numero di “sette chiese”, vuole che le chiese da visitare siano – appunto – in numero di sette o comunque dispari. Nessuna fondatezza né religiosa, né teologica, ma semplicemente di tradizione e devozione popolare.


Gli “allestimenti”, scenografie “sacre”

Lo “scenario” – anche se il termine non è propriamente giusto, ma rende bene l’idea – di questi altari è assai particolare e, ciascuno di noi, ha ben impresso – nella memoria – i diversi “motivi florelai” che abbelliscono le cappelle, con allestito l’altare della reposizione. Addobbi di fiori bianchi, il vino fatto bollire con l’incenso e i semi di grano germogliati al buio, simboli del passaggio dalle tenebre della morte di Gesù alla sua Resurrezione. Oppure possiamo trovare, molte volte, vicino l’altare, una tavola di legno bandita, con sopra un pane e dodici piatti: è il simbolo dell’Ultima Cena, o meglio della “Cena Domini”.



Molte volte, ai piedi di questa “scenografia” troviamo anche alcune composizioni floreali, create con i germogli dei semi di grano (ma anche di altri cereali), fatti nascere immersi in una ciotola nel cotone umido e coltivati in casa al buio, ottenendo dei colori quasi irreali, bianco o verde acqua. In alcuni paesi, soprattutto del Meridione, tali composizioni vengono preparate con la pasta dei biscotti, a forma di oggetti della Passione come la croce, la scala, i chiodi, il martello. Questi vengono portati in chiesa per essere benedetti, ed ornare così le chiese. 


Cittadine, paesi, città d’Italia, dal Nord al Sud, sono tutte unite, in questo importante giorno che dà avvio al Triduo pasquale, che ci conduce alla domenica di Resurrezione. E’ affascinante, all’infuori dell’erronea dicitura che abbiamo precisato all’inizio, come tutte queste realtà – ognuna nelle loro differenze – si preparino a celebrare la “Messa Domini”. E’ significativo di come ancora oggi, a distanza di molti secoli, la preparazione dei “sepolcri” veda impegnati migliaia e migliaia di fedeli delle diverse comunità parrocchiali nostrane.  E’ l’Italia “semplice” quella che si respira nelle chiese, oggi, è l’Italia delle tradizioni tramandate dai nostri nonni,  è l’Italia del cuore umile, dall’origine contadina, e di grande devozione popolare. Ogni tanto, fa piacere ricordarlo.

 


Antonio Tarallo

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