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Opere di misericordia: vestire gli ignudi

Gli "ignudi" a volte siamo noi stessi

di Antonio Tarallo

Quaresima, periodo di meditazione, ma non solo. Chiaro, infatti, è anche l’invito all’azione: rivedere la propria vita alla luce del Vangelo e cercare di approfondire la nostra relazione con Dio. L’invito da parte della Chiesa di soffermarsi sulle “Opere di misericordia” nel periodo quaresimale è un invito sempre attuale. “San Francesco patrono d’Italia” vuole ripercorrere con i lettori proprio queste “opere” alla luce del mondo contemporaneo cercando di rispondere alla domanda: come possiamo viverle nel nostro oggi?

“Vestire gli ignudi”, semplice azione, ma complessi significati. La prima scena che viene in mente è quella “alla lettera”: vestire chi vestiti non ha. Ed è in questo caso che l’iconografia classica non può che far riferimento al nostro san Francesco immortalato così magistralmente da Giotto nella Basilica superiore di Assisi: il santo dona il mantello a un povero. Significato e modalità sono più che evidenti e l’invito è più che chiaro: dare la possibilità di vestirsi a chi non può coprirsi dal freddo. Il mondo di oggi, con tutti i progressi sociali che ha vissuto, ancora non permette a tutti di "vestirsi", di coprirsi. Sembra più che assurdo, eppure è così: degli 8 miliardi di persone al mondo oltre il 10% (fra i 900 milioni e il miliardo) è in povertà assoluta, secondo le ultime stime dell’ONU. Possibilità di spesa giornaliera per questi poveri, meno di 1,25 dollari: questo è il dato ancor più sconcertante. Novecento milioni (per esteso rende ancor meglio l’assurdità) vive al giorno con tale somma. Novecento milioni non sanno di che vestirsi.

Ma ci sono anche altri “ignudi” e non sono lontani da noi. Anzi, molte volte siamo noi stessi. Il famoso drammaturgo e scrittore Luigi Pirandello, nel 1922, scriveva un’opera teatrale dal titolo “Vestire gli ignudi”. Pagine di grande forza e attualità; parole profetiche: analizzava l’importanza dei mezzi di comunicazione di massa, la sofferenza che diventa spettacolo, il voyeurismo morboso intrapreso dalla società contemporanea. Un’indagine profonda, che sfocerà soprattutto nei consueti dubbi pirandelliani sull’identità di ogni persona: io sono ciò che appaio? Sono davvero come gli altri mi vedono o mi immaginano, come gli altri mi “vestono”? Ognuno è un’anima nuda e sente la necessità di rivestirsi di un abito di rispettabilità, di qualità apprezzate dagli altri, per dare un senso alla propria vita e sentirsi “qualcuno”. Ci vestiamo e vestiamo gli altri di un abito che magari non è propriamente conforme a ciò che realmente siamo. Eppure la vita umana è compresa tra due nudità: quella dell’inizio e quella della fine.

Quale abito allora vestire? E quale cercare di offrire al prossimo? Quello della verità, quello del mostrarsi così come si è: con i propri difetti e con i propri limiti. Rivestirsi e cercare di vestire gli altri della più importante veste - che non si compra in nessuna boutique d’abiti - che abbiamo a disposizione per poter vivere una vita piena e vera: essere sé stessi. Torna così alla mente nuovamente san Francesco, sempre dipinto da Giotto: il santo, nudo, davanti al vescovo di Assisi e alla sua gente. Nudità che diviene, con quel gesto, vestizione di sé stesso, dell’essere sé stesso. I vecchi “finti” abiti coprenti cadono, cadono nell’oblio per dare spazio a quello che sarà per il santo il suo nuovo abito: via le maschere, via i pregiudizi, via gli abiti preziosi che non dicono nulla dell’essere umano che nella sua preziosità ha bisogno di ben altro, della verità.

Incontriamo molte volte, nella vita, nudi che non sanno di che vestirsi. Compresi noi, ovviamente, se ci guardiamo allo specchio. L’abito, forse, che meglio possiamo offrire è quello di una nudità che veste di verità. E l’unica verità a cui possiamo tendere, l’unica “maison” d’abiti che veramente conta è quella della Parola di Dio.


Antonio Tarallo

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