Padre Enzo: L’Uomo occidentale prigioniero del presente. Spunti e appunti per i giovani
di Padre Enzo Fortunato
L’uomo occidentale – scrivono Giuseppe De Rita e Antonio Galdo in un libro dal titolo illuminante, Prigionieri del presente - vive una crisi antropologica, non governa la modernità, ha smarrito la sua bussola più preziosa: il rapporto con il tempo lineare.
Non esiste più l’eterno, l’alto, la prospettiva che sta davanti, ma esiste l’eterno presente, una forma di nuova schiavitù.
In questo momento, quanti di noi stanno leggendo WhatsApp? Non solo siamo vittime del presente, ma non siamo più neanche presenti a noi stessi e a chi ci sta di fianco, davanti, dietro.
Un senso di caos ci pervade: siamo deboli, fragili, aggrappati all’inseguimento degli istanti e degli istinti: uno dietro l’altro, senza via di fuga. Il presente ci assedia, ne siamo prigionieri, con le mani in alto in segno di resa incondizionata.
Viviamo un tempo senza memoria, senza slanci, un tempo che diventa liquido ed evapora nell’affanno dell’attimo breve, anzi brevissimo, che è il presente.
E pensare che la parola fretta, che è la vera diva dell’eterno presente, deriva dal latino fregare. In un certo senso, segnala la sorte dell’uomo che in questo modo rimane fregato.
In opposizione alla fretta c’è l’attesa. Condivido con voi le parole di don Marco Pozza, un instancabile divulgatore dei valori più profondi della nostra fede:
Chiedilo all'aurora. Lei ti risponderà: "è di notte che mi alzo e inizio a spargere la luce". Chiedilo alla Risurrezione. Lei ti risponderà: "nella notte di quella Croce ho fatto le prove generali per la mia danza". Chiedilo alla vittoria. Lei ti risponderà: "nella notte della sconfitta ho avvertito il sapore della rivincita". Chiedilo all'amore. Lui ti risponderà: "Nella notte dell'abbandono ho riamato il volto dell'amato". Chiedilo a Maria. Lei ti risponderà: "nella notte oscura del Sabato Santo ho avvertito I primi passi del mio Figlio vestito di luce".
Di notte - in quel labile spazio che abita tra l'oscurità e la luce – affonda le radici il genio e la santità. Il tempo di Platone del quale si dice consumasse più olio nella lampada che vino nella coppa; di Napoleone che iniziava la giornata alle quattro del mattino, di Balzac che s'aggrappava alla penna all'una di notte. Di D'Annunzio che alle tre del mattino rompeva il sonno per scandagliare l'universo e i suoi segreti, di Gesù di Nazareth che di notte s'alzava per pregare e caricarsi d'Eterno: perchè di notte s'avverte meglio l'urto della secchia nel pozzo, la canzone del fuoco, il tonfo di una mela, le parole cupe sulle soglie, il grido del bimbo. Le cose che non passano mai: quelle di Dio e dei suoi avventurieri.
E dentro la notte c'è un mondo in stato di febbrile e appassionata attesa: il fornaio col suo lievitare il pane, il camionista nella piazzola dell'Autogrill, l'editore nel buio della sua redazione, il monaco nel silenzio claustrale della sua cella, la mamma nell'angosciante attesa di un ritorno. Il popolo di Dio attende per entrare nella Terra Promessa: Mosè attende un cenno nel mezzo del deserto, Maria attende un cenno nell'attesa del Golgota - "Dimmi, Figlio mio, quanto mi resta d'attenderTi" -, i discepoli vivono nell'attesa del Regno. Anche Penelope attende il ritorno di Ulisse, Lucia quello del suo Renzo, Ungaretti attende il ritorno della vita.
"I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni o usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle"
(A. Merini)
Se ci sentiamo persi, spaesati, senza sicurezze, non ci dobbiamo meravigliare, ma fermarci a riflettere sui noi stessi e sul nostro passato.
Cari amici, cari giovani, come scriveva con accenni lapidari Seneca più di duemila anni fa in uno dei testi più efficaci e completi della storia, il De brevitate vitae:
Solo gli spiriti tranquilli e sereni – e aggiungerei sapienti - i possono ripercorrere ogni istante della propria vita. Mentre quelli sempre carichi di impegni, come fossero sotto un giogo, non possono voltarsi e guardare indietro. La loro vita, così, si perde negli abissi del tempo. E come non serve a nulla versare grandi quantità di liquido in un vaso senza fondo, così non ha alcuna importanza la quantità di tempo concesso se non ha un luogo per raccogliersi. Ma passa attraverso delle vite sconnesse. Il presente è tanto breve che qualcuno ne nega persino l’esistenza. È sempre in movimento e scorre via veloce. A chi vive di impegni, dunque, appartiene solo il presente. Così breve che non si può afferrare.
Siamo nel primo o secolo dopo Cristo e il filosofo latino parla di “giogo del presente destinato a perdersi negli abissi”. Parla di vite sconnesse.
Non so se sia una profezia questa, ma poco ci manca!
Sapete oggi il vero lusso qual è? Non i soldi, ma il tempo. E allora la sapienza la vogliamo chiedere, vivere, trasmettere. Ma per fare questo io non vi voglio dire cos’è la sapienza, perché probabilmente ci arriveremo insieme.
Intanto, vi dico che alcuni grandi signori ci avevano promesso sapienza, valori, relazioni, tempo. E invece - badate bene - abbiamo assistito a un grande cambiamento, ed è questo che vorrei affrontare con voi. Cambiamento sapiente oppure insipiente?
Il potere della tecnologia, con fragili contrappesi, è declinato anzitutto nei numeri dell’industria digitale. Tutto è avvenuto nel giro di pochi anni. Nel 2006 le prime 5 aziende del mondo per capitalizzazione erano nell’ordine, per fatturato:
Exxon Mobile
General Electric
Microsoft
City Group
Bank of America
Cioè petrolio, manifattura e finanza. Erano le Big Five 10 anni fa, ma nel 2017 il suddetto club cambia fisionomia. E gli iscritti, con la classifica sulla base dei valori di borsa, sono i seguenti:
Apple
Amazon
Microsoft
In appena due lustri, la tecnologia digitale ha vinto l’ultima rivoluzione industriale globale: il loro trionfo ha frantumato la concorrenza, l’antitrust, i mercati aperti e competitivi.
Vi dico questo perché noi facciamo parte di questo mondo e contribuiamo ad alimentarlo: Google controlla un terzo della raccolta pubblicitaria mondiale; Facebook entra in un quarto delle case del mondo e controlla il 77 per cento del traffico sui social network. Amazon ha blindato il 74 per cento del mercato online.
MAI nella storia del capitalismo si era vista una tale concentrazione di potere. Una concentrazione che fa impallidire quello che fu l’oligopolio economico delle sette sorelle del petrolio.
Le nuove BIG FIVE custodiscono nelle loro casseforti una potenza di fuoco chiamata liquidità: per darvi un’idea, la sola Apple possiede una cassa che non scende mai sotto la soglia dei 300 miliardi di dollari.
Per queste compagnìe il tempo è il presente, l’attimo di un clic che ci permette di acquistare una borsa o un paio di scarpe. È il potere del marketing in un mondo dove tutto si compra e si vende con un clic.
Il contenuto è su misura per un soggettivismo esasperato. Scrivono ancora Derita e Galdo.
“Per accumulare in modo bulimico nozioni tramite le quali ognuno possa coltivare l’illusione di sentirsi, io e solo io, informato e appagato di una propria realtà e di una propria verità”.
E qualche anno fa Eric Schmidt, amministratore delegato di google dal 2001 al 2011, scriveva:
“Immaginate di camminare per strada. Con le informazioni che abbiamo raccolto, Google sa bene chi siete, che cosa vi interessa, quali sono i vostri amici, i vostri gusti e le vostre opinioni , e cui di cui avete bisogno. E se in quel moento vi manca il latte, visto che Google sa esattamente dove vi trovate, possiamo anche dirvi dove lo dovete comprare”.
È la perdita assoluta della privacy. Siamo tutti catalogati. Schedati. Spiati. E pensare che Tim Cook, uno dei fondatori di Apple, ci diceva che voleva un mondo più sapiente, più a misura d’uomo. Un mondo in cui fosse garantita più condivisione, più partecipazione e più comunità. E un altro luminare della web economy, Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, voleva “un mondo in cui tutti abbiamo uno scopo, un senso, un significato”.
E invece al moltiplicarsi innegabile di opportunità di relazioni si è abbinato il loro frequente svuotamento in termini di consistenza dei rapporti umani e di lessico per coltivarli.
Ogni minuto vengono spedite 56 milioni di email e 16 milioni di messaggi WhatsApp. Tutto in 60 secondi. La domanda che mi pongo e che vi pongo è questa:
chi ferma la nave prima degli scogli? Citando Kierkegaard, “la nave è finita in mano al cuoco di bordo, e ciò che indica il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani”.
Siamo noi a dovere scegliere, nei nostri piccoli gesti quotidiani, al rotta da dare alla nave, per distinguere l’utile dallo spreco, il necessario dall’imposto, il benessere dall’ossessione, l’emancipazione del progresso dalla schiavitù.
E l’uomo rimane uomo nella misura in cui decide di scegliere il futuro. E nella scelta che compie costruisce la sua identità. Trova la sua sapienza, dando sapore alle cose.
Il web ci può anche aiutare, e tanto, a fare comunità. È anche mediante la rete che sono cresciuti in modo esponenziale gruppi che condividono la spesa, fanno collette per chi ha bisogno di aiuto, condividono la badante tra le famiglie anziane. È un civismo innovativo che crea la collaborazione dei cittadini, per piantare alberi, pulire strade, curare spazi pubblici e salvare il territorio. In questi casi è naturale il passaggio dal virtuale al reale. La rete di fili diventa una rete di persone.
Decidere di ricominciare a raccontare più fiabe a figli e nipoti, invece di lasciarli soli davanti a uno schermo e ai loro cartoni animati.
Decidere di spegnere lo smartphone a tavola e ricominciare a scambiarci opinioni, racconti, autentica conoscenza tra le persone.
Decidere di salvarci la vita, anche in auto, a fronte del terrificante aumento del 30 per cento degli incidenti stradali per chi guida con lo smartphone in mano.
Mi chiedo, e vi chiedo, è possibile tornare a raccontarci le fiabe, la tavola, la vita?
Per fare questo, non bisogna salire, ma forse scendere.
Così Pietro Prini scrive nel suo libro Il senso del messaggio francescano:
“nella tradizione greca, e specialmente platonica, una maniera di intendere l’eros è quella che l’identifica con il bisogno, la mancanza di qualcosa, la tendenza del più basso al più alto, dell’imperfetto al perfetto, dell’informe alla forma dell’apparire all’essere, dell’ignoranza al sapere, come qualcosa dunque che non può essere attribuito a Dio. Nella genuina esperienza cristiana, al contrario, l’amore si rivela proprio nel fatto che il nobile si abbassa all’ignobile, il sano all’ammalato, il ricco al povero, il bello al brutto, il buono e santo al cattivo e al volgare, il messia ai pubblicani e ai peccatori, e questo senza la paura antica di perdere, facendo ciò, e di diventare meno nobile, ma nella più strana convinzione di guadagnare l’eccelso , di divenire simile a Dio, proprio nell’esecuzione di questo “umiliarsi” di questo discendere, di questo perdersi.
Nella Leggenda dei Tre Compagni si dice che Francesco, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo, si liberò dell’armatura e baciò la mano di un lebbroso, abbracciandolo.
Padre Enzo Fortunato
Commenti dei lettori
NON CI SONO COMMENTI PER QUESTO ARTICOLO
Lascia tu il primo commento
Lascia il tuo commento
la cripta
di San Francesco
Rivista
San Francesco