Frati Libano, una vita tra i profughi siriani
Signora, io non vengo qui perché sono Abouna, ma perché tu sei un essere umano e io sono un essere umano
di Redazione online
“Abouna - padre -, dice una donna siriana in piedi davanti alla sua tenda, tu sei un padre cristiano e ci stai servendo. Da quando siamo qui non non è mai venuto un dignitario musulmano a trovarci, e tu sei sempre qui a darci acqua”.
E fra Iosif le risponde: “Signora, io non vengo qui perché sono Abouna, ma perché tu sei un essere umano e io sono un essere umano...”. Basta questo “fioretto” per illustrare la relazione venuta a crearsi durante tanti mesi tra la comunità dei frati e le 70 famiglie di uno dei tanti campi di profughi siriani sparsi nella regione della Bekaa. Ogni mercoledì, fra Iosif guardiano della comunità francescana conventuale di Zahle (Bekaa – Libano) e Andrea, postulante, dedicano la loro giornata a fornire acqua a 70 famiglie di un campo di profughi siriani.
Escono alle 9 della mattina dal convento con il camion cisterna e rientrano quando hanno finito il loro servizio, quasi sempre attorno a mezzanotte. Il nostro servizio a uno dei tanti campi di profughi siriani è cominciato nel 2014 con visite regolari poi, piano piano ci siamo organizzati con volontari per stare vicino a chi ha perso terra, casa e lavoro, soprattutto vicino ai tanti bambini che hanno vissuto il dramma della guerra.
All’inizio, una semplice animazione una o due volte la settimana. Si trattava di far giocare i bambini. Ci siamo resi conto subito però del bisogno di avere un luogo coperto da utilizzare come spazio per le attività, una tenda dell’incontro, un terreno comune, una casa per giocare, imparare, cantare e celebrare la vita.
Nello stesso tempo, le tende servivano per incontri regolari con le mamme. Una psicologa e una sociologa venivano a turno per la loro formazione. Grazie all’Associazione “Equal” creata da noi a questo scopo e aiutati dalla “Fondazione Giovanni Paolo II”, abbiamo allestito due tende. Lì, durante l’estate, si fanno tante attività come giochi, disegni, lavori manuali, incontri di condivisione e durante il tempo della scuola, si fa scuola.
Benché il Governo libanese abbia aperto le scuole pubbliche all’accoglienza di tutti procurando a ogni allievo il necessario, per i nostri era difficile raggiungere la scuola per due ragioni: la mancanza di mezzi di trasporto e il fatto che non sapevano neppure leggere e scrivere.
Abbiamo dunque iniziato la scuola. I novizi – per quanto il loro tempo lo permetteva – e altri volontari hanno fatto corsi di arabo e di matematica durante tutto l’anno scolastico 2015–2016. Anche le mamme hanno voluto mettersi a studiare. Una donna egiziana, due volte la settima, ha insegnato loro a leggere e scrivere. Queste attività ci hanno permesso di capire più da vicino questa gente e la loro “miseria”. Mi soffermo su due argomenti: la situazione della donna e il mancato affetto che vivono i bambini.
Utilizzo il termine bambini perché, una volta raggiunta l’età di 12-13 anni, le bambine cominciano a prepararsi al matrimonio e i ragazzi vanno a lavorare con i loro padri, sia nei campi o in altri lavori. Dagli incontri fatti con le mamme è emersa la problematica delle loro relazioni con i mariti. Sappiamo tutti della poligamia permessa dai musulmani. Di fatto, se un uomo ha due mogli che vivevano in due case oppure due camere separate con un muro di cemento, qui stanno insieme con i loro figli sotto una stessa tenda. Tutto cambia e tutti sono testimoni di tutto. Le donne vivono il dramma e la paura di ritrovarsi un giorno non più gradite dal marito che potrà sposarsi un’altra.
Di fatto, quasi sempre dopo gli incontri di formazione, si continuava liberamente con la psicologa e la sociologa a discutere di sessualità. Si notava anche il grande bisogno di queste donne di trovare uno spazio personale con la psicologa. E alla domanda, “qual è il vostro sogno per il futuro”, le donne come i bambini non davano nessuna risposta.
“Un giorno arrivo al campo – raccontava un frate – vedo una ragazza con un bimbo in braccio. Le dico: che bel fratellino hai! E lei risponde: non è mio fratello, è mio figlio. Dico: quanti anni hai? E mi risponde con un bel sorriso: 14 Abouna!”.
Poi il frate continua: “L’ho vista due settimane dopo e le ho chiesto se era contenta, se non aveva desiderio di studiare, di fare altro nella vita prima di essere sposa o mamma.
Mi ha risposto: per ora faccio bambini e ambedue siamo contenti. Altre cose, le farò dopo”.
E la sua mamma ha aggiunto: “Questa è la nostra vita. Certo io non desidero che mia figlia viva le mie stesse angosce, ma questa è la nostra vita!”.
Che sogno può avere chi ha visto la vita solo con gli occhi delle telenovele offerte dalla televisione e che si ritrova in uno spazio ben delimitato con una frontiera che attraversa raramente? Infatti, neanche i bambini hanno grandi sogni.
“Abouna, portami!”, “Abouna, cosa mi hai portato?” sono le frasi che sentiamo più spesso.
Quando arriviamo, cercano di toccarci, di sentirsi considerati e soprattutto amati. E quando non ci siamo, sono lasciati a loro stessi tutto il giorno. E quando litigano e diventano violenti i papà presenti rimangono lì a guardare. Nessun intervento, nessun appello alla calma. Ognuno ha la sua vita! E solo dopo che il sole è calato, i membri di una stessa famiglia si ritrovano nell’attesa di un nuovo giorno, spesso simile a quello precedente, dove il futuro si fa più vicino ma rimane tanto incerto.
Articolo di Cesar Essayan OFMConv, Vicario apostolico dei Latini in Libano e Elias Paolo Marswanian OFMConv, ex studente del Seraphicum per San Bonaventura informa
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