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Gianfranco Ravasi, Monoteismo a tre voci

di Il Sole 24 ore
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Dal mondo variegato e sterminato del monoteismo abramitico facciamo risuonare, in modo così libero da rasentare il divertissement interreligioso, tre figure radicalmente diverse. Iniziamo dall’islam nientemeno con Allah, il nome sacro del Dio unico, creatore, provvidente e giudice. Un nome che, in realtà, è probabilmente basato su una matrice ebraica, a sua volta fondata su una radice semitica col risultato che anche i cristiani di lingua araba lo usano nelle invocazioni a Dio della liturgia. Ma nell’accezione comune Allah rimane il Dio “musulmano”, ed è curiosamente un monaco cristiano, Ignazio De Francesco, che è anche un islamologo, a guidare il lettore italiano nella teologia di una comunità religiosa che tutti incrociamo ogni giorno. Egli lo fa in modo essenziale, anche se un po' troppo ramificato fino a creare reiterazioni, allargando l'arcobaleno dei temi connessi a quel nome, a partire dai suoi novantanove epiteti «che sono come tessere di un mosaico» teologico, fino alla collana di nodi che ne derivano. Ne elenchiamo alcuni e sarà facile intuirne l'intrico sotteso: individuo e comunità, fede e diritto, rivelazione e ragione, religione e politica, destino e libertà, fede e opere, storia ed escatologia. Naturalmente i corollari si aggregano a grappolo e hanno sempre come crocevia il Corano e come sbocco gli effetti sull'antropologia. Interessanti sono anche, in mezzo ai molti rimandi alla letteratura teologica, l'attenzione riservata a qualche manuale dell'attuale didattica o catechesi musulmana fino agli spunti per un dialogo interreligioso che sono ulteriormente approfonditi dalla postfazione di Fabrizio Mandreoli, un teologo bolognese.

Gli interrogativi che di solito vengono avanzati nei confronti dell'islam sono in realtà molto complessi: si pensi, ad esempio, all'ermeneutica del Corano, un atto normale per la Bibbia ma problematico nella tesi dell'ispirazione verbale, ossia letterale, prevalente tra i teologi musulmani o ancora al tormentato rapporto con la modernità.

Sta di fatto che il nostro confronto con questo orizzonte religioso sempre più presente accanto a noi, per non degenerare in scontro (come auspicano entrambi i fondamentalismi, l'arabo e quello politico occidentale), può fiorire solo dalla conoscenza reciproca. Più che duello, un duetto quindi, nell'identità e nella reciprocità, come accade appunto in questa tipologia musicale che può mettere in armonia un soprano e un basso, voci antitetiche tra loro.

Ignazio De Francesco è anche un esperto di siriaco e ha curato gli inni di un celebre Padre della Chiesa, Efrem di Nisibi, vissuto nel IV secolo a Edessa, il cuore della cultura dell'antica Siria cristiana. Ci trasferiamo, così, nel secondo settore della nostra trilogia monoteistica con un esempio desunto dall'ambito cristiano. Il citato Efrem, diacono, poeta e predicatore, ha creato uno straordinario florilegio di opere ove domina la tonalità “cantata” dell'innologia a cui si accennava. Ebbene, un giovane studioso, Emanuele Zimbardi, presenta ora un sermone-poemetto dedicato a quel sorprendente testo ebraico-biblico (e quindi già ci intrecciamo col terzo quadro del nostro trittico interreligioso) che è il libro di Giona, uno scritto sapienziale, simile a una parabola, che ha per protagonista un profeta renitente alla chiamata divina per una salvezza universalistica.

Di malavoglia questo profeta integralista si rassegna a predicare a Ninive, la capitale della nazione nemica di Israele, l'Assiria, e assiste un po' disgustato alla radicale conversione di quel popolo, convinto dalla sua parola minacciosa centrata sul giudizio di Dio riguardo al male. Efrem apre il suo sermone, lasciando tra parentesi la vicenda precedente di Giona e il suo celebre soggiorno nel ventre del cetaceo (un tópos di grande successo letterario, come attesta il Pinocchio collodiano), e colloca il protagonista già a Ninive: «Entrò nella città forte e la turbò con parole temibili». Zimbardi studia le caratteristiche di questo memra, in siriaco “sermone”, secondo i canoni tipici delle edizioni esegetiche: testo, struttura, personaggi, figure retoriche, linguaggio, temi, tradizioni. Si scopre, così, che la voce di Giona-Efrem vuole in realtà scuotere il cuore della comunità cristiana contemporanea a Efrem, personificata nei niniviti e ritratta nella sua composizione sociale. Il messaggio si fa, così, parenetico con l'appello alla conversione, alla penitenza, all'impegno caritativo, alla lotta contro il piacere carnale. È in questo contesto che spicca una macchia oscura rappresentata dagli ebrei contro i quali – secondo una prassi allora consolidata – Efrem si scaglia individuando in essi l'emblema del vizio.

Siamo, in tal modo, condotti alla terza componente della nostra libera trilogia monoteistica, quella ebraica, considerata però secondo ben altra prospettiva rispetto a quella ostentata dal diacono poeta di Edessa (oggi Urfa, città della Turchia, sede in passato anche di un principato crociato). Per l'ebraismo scegliamo, allora, l'opera di un importante studioso della mistica di quella religione, Moshe Idel dell'università di Gerusalemme, un autore che ha alle spalle un'imponente e qualificata bibliografia spesso tradotta in italiano, in particolare da Adelphi.

Il ventaglio dei temi che intersecano questa esperienza spirituale alta è stato da lui aperto nei suoi vari saggi in tutti i colori principali, dal male all'eros, dal figlio al Golem, fino alle affascinanti iridescenze della Qabbalah. Ora egli, col titolo simbolico di Catene incantate, ci introduce nelle «tecniche e rituali della mistica ebraica». L'itinerario piuttosto affascinante che egli propone al lettore non è tanto quello di veleggiare sulle vette speculative dei mistici ebrei, capaci spesso di generare vertigini (nello svelare queste cime è stato maestro Gershom Scholem).

Idel, invece, si ferma nella valle in cui la mistica celebra i suoi riti, elabora la sua prassi, fa sbocciare le sue immagini. Suggestiva è l'immagine della catena o anche della corda perché attraverso gli anelli o lo svolgersi della fune della tecnica rituale si può “sacramentalmente” – diremmo con terminologia cristiana – ascendere proprio a quegli apici celestiali e “incantati”. La sequenza dei capitoli, molto ricchi e pieni di “fioriture” simbolico-descrittive, è dedicata proprio alla rappresentazione di queste pratiche o «strutture continue» o anelli della catena: dal nome epifanico di Dio alla sua parola nella Torah, dalla preghiera alla morale, dalla sonorità vocale al dispiegarsi cromatico e così via. Come scrive Maurizio Mottolese, curatore dell'edizione italiana con Emma Abate, «i mistici ebrei tendono a trasformare i rituali tradizionali in tecniche mistiche per il raggiungimento del divino. Ne consegue la produzione di immagini (e di teologie) che insistono sulla connessione, l'interazione e l'intimità, piuttosto che sulla distanza e l'abisso fra sfere umane e sfere divine». In questo atteggiamento, in verità, si trovano affratellati – pur nelle singole specificità e modalità – tutti i mistici, anche quelli cristiani e musulmani (si pensi ai sufi).



Il Sole 24 ore

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