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Il racconto di Natale dell’ateo Jean Paul Sartre

Una delle più belle pagine sulla maternità di Maria

di Antonio Tarallo
Credit Foto - Pixabay

Fuori ogni dubbio, ci troviamo davanti a una delle più belle descrizioni di un Dio Bambino, di un Dio di sublime tenerezza. Una delle pagine più mistiche e - al contempo - più umane sulla Madonna. Stiamo parlando di Bariona, ou le Fils du tonnerre (Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti) del noto scrittore del ‘900, Jean Paul Sartre. Fa un certo effetto scorrere le pagine di questo testo così densamente spirituale. Ci lascia quasi interdetti: come è possibile che l’ateo Sartre, il filosofo esistenzialista Sartre sia riuscito così meravigliosamente bene a descrivere uno dei misteri del Cristianesimo: il “Verbum factum est”?

Eppure Jean Paul Sartre, prigioniero dei tedeschi a Treviri, durante la seconda guerra mondiale, ci ha lasciato — incredibilmente — una pagina, bella come poche, su Maria e sul suo travaglio umano di fronte a quel Dio fatto uomo, sul bimbo che ella aveva partorito.
Moeller, scrittore e sacerdote del secolo scorso, nel suo “Letteratura moderna e Cristianesimo” (1966), accenna a Bariona o il figlio del tuono, di sfuggita: “In un campo di prigionia ha composto una laude natalizia da recitare in una baracca”. Nello stesso saggio, Moeller, analizza l’ateismo di Sartre, arrivando alla conclusione che il filosofo francese non aveva fatto altro che “rifiutare” il suo destino di “figlio di Dio”. Aveva rifiutato la religione, la sacralità, per poter dedicare la sua intera esistenza alla Letteratura e alla Filosofia. In breve: queste due espressioni dell’Umano sono diventate per Sartre la sua personale “religione”.

Ma ritorniamo a questo racconto di Natale che vide la prima pubblicazione in 500 copie fuori commercio, datata 1962. In essa emerge un Sartre inedito, distante dagli esiti nichilistici de La nausea, aperto alla speranza destata dal novum della nascita. Un Sartre che riconosce la positività dell’Esistenza e sa descrivere, con rara delicatezza, Maria, la madre di Gesù Bambino.
Nel giugno 1940 Sartre, a causa della disfatta dell’esercito francese, viene fatto prigioniero dai tedeschi. In agosto viene trasferito in Germania, nel campo di prigionia di Treviri, dove rimarrà fino all’aprile del 1941. L’esperienza della solidarietà tra prigionieri lo toglierà dalla sua solitudine, dal disprezzo del mondo. Vivrà in quell’esperienza, la luce nelle tenebre. E sarà proprio quella piccola scintilla a indurlo a scrivere Bariona. In quel campo di priogionia, conosce alcuni sacerdoti, tra cui l’abate Marius Perrin, con cui si lega d’amicizia. Proprio in questo contesto, nasce l’idea di un lavoro teatrale che Sartre scrive in occasione del Natale 1940.

Nelle sue linee essenziali il lavoro mette in scena la storia di un capovillaggio ebreo, Bariona, che, di fronte all’ordine del procuratore romano di aumentare le imposte, accetta il pagamento chiedendo però agli abitanti del luogo di non fare più figli. Roma potrà esercitare il suo potere solo sul deserto. Nel suo imperativo suicida Bariona non sa ancora che sua moglie Sara è in attesa di un figlio. La scoperta, drammatica, non lo fa desistere dalla scelta, scelta a cui la consorte si oppone. È in questo quadro che Bariona viene informato dai pastori della nascita del Messia in una stalla di Betlemme; una notizia, questa, che ai suoi occhi ha il sapore di una grande illusione, di un inganno. Il capo ebreo medita in cuor suo di uccidere il bambino, di sopprimere questa vuota speranza. Giunto a Betlemme vi trova Sara e, presso la capanna, una folla inginocchiata, commossa e felice. Sorpreso, desiste dal suo proposito e, alla notizia che Erode vuol ammazzare Gesù, raduna i suoi, raccoglie le armi, e, consapevole di andare a morire, va incontro agli sgherri del re.

Ma, ora, lasciamoci incantare dalle parole di Sartre, dal suo racconto di Natale:

Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. (...) Nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, poiché egli è Dio ed oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio. Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride”.


Antonio Tarallo

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