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Le città d’Italia e i loro santi patroni

di Antonio Tarallo
Credit Foto - Bergamopost.it

Cultura e tradizione, si fondono – si mischiano, quasi, potremmo dire, visto che il “mischiare” rende forse meglio l’idea – con la religiosità. Piccolo appunto, necessario per inquadrare la situazione: vi è differenza tra Fede e Religiosità. E poiché in questo articolo si parla di quest’ultima, rimane importante ribadirne la distinzione. Necessaria, alquanto. Ovviamente, sappiamo tutti che in un Tempo come il nostro, così secolarizzato, le feste sembrano sempre più acquisire un’importanza “relativa”, quando invece ci troviamo di fronte, ogni giorno, volendo o non volendo, a un calendario “appeso” al muro, posto lì ad indicarci – giorno dopo giorno – nomi, celebrazioni, vite di santi che si diramano per tutte le pagine che compongono, appunto, il calendario. L’Italia, la nostra penisola, si sa, è un pullulare di tradizioni, di feste, che “ancora tengono banco”. E, ogni volta che ci troviamo immersi in queste, diciamolo pure, a credenti e a non credenti, fa sempre piacere.  Fosse questo il punto d’incontro del vero dialogo con “i lontani dalla fede”? Battute a parte, la nostra penisola, ha una ricchezza di tradizioni che sono profondamente radicate nella geografia di alcuni luoghi. Molte volte, sono le stesse “città”, a fornirci lo spunto per andare a rivedere, riscoprire, le biografie di alcuni santi che  – chi per un modo, chi per un altro – hanno un legame proprio con una “determinata città”, piuttosto che con un’altra. E, molti di questi, compaiono con quel particolare “titolo” di Patroni.

E, allora, cominciamo pure a metterci in cammino in questa variopinta Italia, alla scoperta di quei Santi a cui, la devozione popolare, ha assegnato la protezione delle innumerevoli città che compongono la storia sociale e geografica italiana, così come la conosciamo da tempo: variegata, unita, popolare, e che – in fondo – nasce proprio dall’unione/differenza di tutti quei comuni che precedentemente venivano chiamati “feudi”, e che poi si sono tramutati – grazie soprattutto al Rinascimento – nelle odierne città, così come le viviamo oggi.

Roma, caput mundi. Iniziamo dalla Capitale. Iniziamo dalla culla del Cattolicesimo. I Santi Pietro e Paolo, festeggiati il 29 giugno. I due immensi apostoli, l’uno raffigurato con le famigerate “chiavi”, l’altro con spada e libro. Martiri entrambi, della Roma neroniana. Storicamente, però le date di morte dei due apostoli, non potevano essere il 29 giugno del 67. I due santi non furono in effetti contemporaneamente martirizzati in tale data. In realtà, la data del 29 giugno è legata all'antica festività romana del Quirino, divinazione e festa romana che celebrava i due gemelli Romolo e Remo. Pietro e Paolo, diverranno così, i nuovi “fondatori” della Città Eterna, della città del “Quo vadis”, per intenderci. Questa  “città nuova”, rispetto a quella pagana dell’Impero Romano, aveva bisogno dei “nuovi fondatori”.

“Senta il caso avvenuto di fresco,/ a me che, girellando una mattina,/ capito in Sant'Ambrogio di Milano,/ in quello vecchio, là, fuori di mano”. Così il poeta Giuseppe Giusti, narrava la scoperta della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, nel suo componimento dal titolo, appunto, “Sant’Ambrogio”. Il legame del Santo con la città meneghina è profondamente connesso con il suo operato vescovile. Aurelio Ambrogio di Treviri, questo il nome originario dato dal luogo di nascita, assieme a San Carlo Borromeo e San Galdino è patrono della città della quale fu vescovo dal 374 fino alla morte. La festa del 7 dicembre, quella che per i milanesi è semplicemente “il giorno di Sant’Ambrus”,si rifà al giorno della celebrazione della ordinazione a Vescovo. Così, ricorderà agli abitanti della vicina Vercelli, quel fatidico giorno: “Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami”.

Tre città per un santo. Parliamo della “voce nel deserto”, di chi ha preceduto la venuta di Cristo, è lui: San Giovanni Battista. Le città coinvolte, tre: Torino, Genova e Firenze. La sua festa ricorre il 24 giugno, giorno del solstizio di estate, nel quale il sole è al culmine nell'apogeo. Piccola curiosità, complementare a tale data è quella del 27 dicembre (solstizio di inverno), che vede invece festeggiato un altro Giovanni, l’ Evangelista. Le celebrazioni devozionali per il Battista, hanno sempre un qualcosa di folkloristico, tradizionale, popolare, e sono diffuse maggiormente  – seppur coinvolgono tutta l’Italia – appunto nelle tre città nordiche. Ma, tanto per la cronaca, San Giovanni Battista è stato adottato da svariate città, come loro patrono. E’ impressionante come, ad esempio, solo per il Piemonte, se ne contano ben 31. Ultima curiosità che desta un po’ di sorpresa. Dobbiamo a questo santo, in una certa misura, la denominazione musicale del “do”, la prima nota della scala musicale. Infatti, proprio in suo onore, il monaco e poeta Paolo Diacono, compose un inno, dal titolo “Ut queant laxis”. Da questo, successivamente, il poeta (e monaco anche lui) Guido d’Arezzo – ci si avvicina geograficamente alla città fiorentina – prese spunto per i nomi delle note musicali. Per tale “innesto musicale” venne utilizzata la prima strofa dell’inno, che recita così:  “Ut queant laxis / Resonare fibris / Mira gestorum / Famuli tuorum / Solve polluti / Labii reatum / Sancte Johannes”. La sillaba “ut” fu poi trasformata in “do”. E da quel momento in poi, fu adottata questa regola, per la grammatica musicale.

Arriviamo così nel Meridione. Terra che dalla Magna Grecia ha ereditato tutta una particolare tradizione culturale, dove la religiosità (nella sua più vasta eccezione) e il “popolare”, si fondono in un connubio perfetto. Un’ armonia di disaccordi che rende questa terra, davvero, unica, nella sua poliedricità di differenze e ossimori. E, allora, se parliamo di Sud, non possiamo non pensare alla sua città simbolo, Napoli. E Napoli e San Gennaro, sono una “cosa sola”. Anzi, potremmo dire: Napoli è San Gennaro, e viceversa. E di questo legame così autentico e verace, è possibile esserne spettatori, nel Duomo a lui dedicato, ogni 19 settembre, quando migliaia di fedeli assistendo al famoso miracolo del sangue, la “liquefazione” (questo il termine tecnico), gridano a una sola voce: “o’ miracol’ !”, la “o” finale non va pronunciata.Certamente con tutte queste premesse, fa un certo effetto sapere che questa enorme figura del Cristianesimo – tra l’altro ricordiamo che nel Martirologio Romano è indicato come “martire” – così tanto legata alla storia, all’iconografia di Napoli, sia nato probabilmente (le fonti si dividono) in altra città: si dice sia stata Benevento,  a sentire il primo vagito di Gennaro. Anzi, no di “Gennaro”, bensì di Ianuario, questo il vero nome, dato dalla discendenza della famiglia gentilizia Gens Januaria, sacra al dio bifronte, Giano.  Per questo motivo, abbiamo poi la trasformazione nell’idioma campano in “Gennaro”, appunto. Seppure, alcune fonti non ufficiali, affermano addirittura che il suo nome fosse Procolo.   Gennaro, Vescovo di Benevento, fu martirizzato probabilmente nel 305. E ciò avvenne…a Napoli? No. Bensì a Pozzuoli. Ma alla fine, ciò che conta di più per la cittadinanza, ciò che lo rende così vicino al capoluogo campano, è e sarà sempre quel grido di gioia, mista a speranza: “o’ miracol’ !”.



Antonio Tarallo

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