Mons. Pizzaballa: “La Pasqua abbatte i muri"
di Daniele Rocchi
“Ripartire dalla legge della Croce”: non ha dubbi mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Davanti alla domanda “Che significato ha parlare, oggi, di Resurrezione, di Pasqua” in Medio Oriente e più in particolare in Terra Santa invita a fare un passo indietro. Lo stesso che capita di fare a chi, entrando nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, va di corsa al Santo Sepolcro, passando oltre il Calvario, che pure è lì a pochi metri, posto alla sommità di una ripida scala di pietra, giusto all’ingresso della basilica considerata il cuore della Cristianità. Non c’è Resurrezione, senza Passione, senza Calvario.
“A Pasqua – ribadisce al Sir – dobbiamo ri-attingere dal cuore di Cristo, dal costato ferito, la forza e la freschezza del suo messaggio di pace di cui tutti abbiamo bisogno”. Passare in rassegna le guerre e i conflitti in Medio Oriente, allora, potrebbe sembrare un puro esercizio di stile, ma non è così. Mons. Pizzaballa lo sa bene. Il conflitto israelo-palestinese, la guerra in Siria, in Iraq, nello Yemen, la ripresa dei combattimenti in Libia sono la dimostrazione, afferma l’arcivescovo, che tutto “il Medio Oriente e la Terra Santa, in particolare, hanno un problema con la parola pace. Non perché non la vogliano, anzi, ma perché è diventata una chimera. Per questo motivo noi cristiani sentiamo il bisogno, soprattutto quando arriviamo a Pasqua, di fermarci un attimo, di uscire dagli slogan, dalle frasi fatte e guardare alla Pace che nasce sul Calvario, il luogo del perdono di Cristo”.
“Pace e perdono, pace e giustizia, riconciliazione – ribadisce – rischiano però di trasformarsi in semplici slogan se non ci crediamo più. La Pasqua diventa così il tempo nel quale ri-attingere la forza e la freschezza del messaggio di pace di cui tutti abbiamo bisogno. E questa forza sgorga dal costato aperto di Cristo”. “Pace e giustizia nel linguaggio cristiano sono legati al perdono – ricorda l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme -. Giovanni Paolo II disse che non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Noi cristiani abbiamo bisogno di ricominciare da qui. La strada è quella della pace e della giustizia”.
I cristiani sono sempre meno in Medio Oriente, la loro voce diventa sempre più flebile. Tutto ciò non indebolisce il messaggio pasquale?
Non facciamo diventare i numeri i soli criteri di risonanza e di potenza del nostro discorso. Il messaggio cristiano diventa valido se ha un contenuto, se la qualità della nostra vita e della nostra proposta è alta.
Come renderla tale, allora, in mezzo a tante difficoltà?
Le Chiese del Medio Oriente vivono un grande travaglio. Non può essere diversamente perché tutta la società è in travaglio. La Chiesa non fa eccezione. Abbiamo bisogno, come cristiani, di ritrovare il senso di comunità, a partire non dal successo delle nostre imprese ma dalla legge della Croce e dalla potenza della Resurrezione.
Per molti però il Calvario non è preludio alla Resurrezione. È una passione che non vede fine…
Per noi cristiani deve essere diverso. Il Cristianesimo, nei suoi primi tre secoli, si è espanso nonostante le persecuzioni, grazie alla testimonianza. C’è uno stile cristiano anche dentro questi conflitti e dentro queste ferite che, ribadisco, non tolgono nulla al dolore e non impediscono di invocare giustizia. L’ingiustizia, la sofferenza e la morte non possono diventare il criterio di lettura di tutto ciò che accade in questa area.
Ma qual è questo stile cristiano, come lo potrebbe descrivere?
È uno stile nonviolento e di incontro. In Terra Santa abbiamo i muri che non vogliamo. Desideriamo incontrare, dialogare, noi non abbiamo nemici. Nemico è una parola da abolire. Non vogliamo pensare all’altro come ad un nemico. Questi sono solo alcuni dei criteri che definiscono lo stile cristiano che ci immette nel cammino dettato dalla Resurrezione, dalla Pasqua.
A proposito di incontro: gesti di dialogo come quelli di Papa Francesco ad Abu Dhabi e in Marocco possono aiutare i cristiani di Terra Santa e del Medio Oriente a ravvivare il messaggio pasquale?
L’incontro di Abu Dhabi e anche quello ultimo in Marocco hanno ricadute importantissime sulle comunità cristiane mediorientali. Soprattutto quello di Abu Dhabi è stato significativo per il luogo ed ha avuto una grande eco. Ha coinvolto in una maniera molto alta il mondo islamico che si è impegnato nel dialogo con il cattolicesimo e il cristianesimo. È stato molto importante il discorso di Aḥmad Muḥammad Aḥmad al-Ṭayyib il grande Imam di al-Azhar che ha definito i cristiani non una minoranza ma cittadini. Sono stati gesti molto importanti anche perché hanno all’interno dell’Islam una forte opposizione. Ci ritroviamo totalmente nell’indicazione che il Papa ha dato con questi gesti.
L’incontro con i musulmani da un lato e quello con gli ebrei dall’altro. Il dialogo con l’ebraismo, per le radici comuni, può in qualche maniera dirsi privilegiato. Purtroppo, anche qui, il conflitto rende tutto più difficile…
C’è un rapporto con l’ebraismo e un rapporto con l’ebraismo israeliano. Sono due cose diverse. Il rapporto con l’ebraismo è sereno, non presenta grossi problemi. In Terra Santa non si può prescindere dalla situazione politica che è una sorta di elefante dentro una cristalleria. Ma questo è un motivo in più per dialogare, altrimenti creiamo dei muri. E la Pasqua non conosce muri.
Agensir
Daniele Rocchi
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