Papa Francesco a Napoli. La bussola è San Francesco
Il gesuita va dai gesuiti e pone al centro Francesco, necessario 'evangelizzare da etnografi dell'anima'
Alle ore 7.50 di questa mattina, il Santo Padre Francesco è partito dall’eliporto del Vaticano per recarsi a Napoli in occasione dell’Incontro promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi sul tema: “La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo” (20-21 giugno 2019).
La seduta pubblica dell’Incontro ha avuto luogo sul piazzale antistante la Facoltà. Dopo i vari interventi della seconda giornata dei lavori, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine dell’incontro, il Papa ha salutato i Docenti della Facoltà e la Comunità dei Gesuiti. Lasciata la Facoltà Teologica, alle ore 13.12 è partito in elicottero dal Parco Virgiliano di Napoli per fare rientro in Vaticano.
Pubblichiamo di seguito l’intervento che il Santo Padre Francesco ha pronunciato nel corso dell’Incontro:
Intervento del Santo Padre
Cari studenti e professori, Cari fratelli Vescovi e Sacerdoti, Signori Cardinali!
Sono lieto di incontrarmi oggi con voi e di prendere parte a questo Convegno. Ricambio di cuore il saluto del caro fratello il Patriarca Bartolomeo, un grande precursore della Laudato si’ – da anni precursore –, che ha voluto contribuire alla riflessione con un suo personale messaggio. Grazie a Bartolomeo, fratello amato.
Il Mediterraneo è da sempre luogo di transiti, di scambi, e talvolta anche di conflitti. Ne conosciamo tanti. Questo luogo oggi ci pone una serie di questioni, spesso drammatiche. Esse si possono tradurre in alcune domande che ci siamo posti nell’incontro interreligioso di Abu Dhabi: come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e pacifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere nelle nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da noi perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla nostra? Come le religioni possono essere vie di fratellanza anziché muri di separazione? Queste e altre questioni chiedono di essere interpretate a più livelli, e domandano un impegno generoso di ascolto, di studio e di confronto per promuovere processi di liberazione, di pace, di fratellanza e di giustizia. Dobbiamo convincerci: si tratta di avviare processi, non di fare definizioni di spazi, occupare spazi... Avviare processi.
Una teologia dell’accoglienza e del dialogo
Nel corso di questo Convegno avete prima analizzato contraddizioni e difficoltà nello spazio del Mediterraneo, e poi vi siete interrogati sulle soluzioni migliori. A questo proposito, vi chiedete quale teologia sia adeguata al contesto in cui vivete e operate. Direi che la teologia, particolarmente in tale contesto, è chiamata ad essere una teologia dell’accoglienza e a sviluppare un dialogo sincero con le istituzioni sociali e civili, con i centri universitari e di ricerca, con i leader religiosi e con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per la costruzione nella pace di una società inclusiva e fraterna e anche per la custodia del creato.
Quando nel Proemio della Veritatis gaudium si menziona l’approfondimento del kerygma e il dialogo come criteri per rinnovare gli studi, si intende dire che essi sono al servizio del cammino di una Chiesa che sempre più mette al centro l’evangelizzazione. Non l’apologetica, non i manuali – come abbiamo sentito –: evangelizzare. Al centro c’è l’evangelizzazione, che non vuol dire proselitismo. Nel dialogo con le culture e le religioni, la Chiesa annuncia la Buona Notizia di Gesù e la pratica dell’amore evangelico che Lui predicava come una sintesi di tutto l’insegnamento della Legge, delle visioni dei Profeti e della volontà del Padre. Il dialogo è anzitutto un metodo di discernimento e di annuncio della Parola d’amore che è rivolta ad ogni persona e che nel cuore di ognuno vuole prendere dimora. Solo nell’ascolto di questa Parola e nell’esperienza dell’amore che essa comunica si può discernere l’attualità del kerygma. Il dialogo, così inteso, è una forma di accoglienza.
Vorrei ribadire che «il discernimento spirituale non esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche, sociologiche e morali. Però le trascende. E neppure gli bastano le sagge norme della Chiesa. Ricordiamo sempre che il discernimento è una grazia - un dono -. Il discernimento, insomma, conduce alla fonte stessa della vita che non muore, cioè “che conoscano, l’unico vero Dio, e colui che ha mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 170).
Le scuole di teologia si rinnovano con la pratica del discernimento e con un modo di procedere dialogico capace di creare un corrispondente clima spirituale e di pratica intellettuale. Si tratta di un dialogo tanto nella posizione dei problemi, quanto nella ricerca insieme delle vie di soluzione. Un dialogo capace di integrare il criterio vivo della Pasqua di Gesù con il movimento dell’analogia, che legge nella realtà, nel creato e nella storia nessi, segni e rimandi teologali. Questo comporta l’assunzione ermeneutica del mistero del cammino di Gesù che lo porta alla croce e alla risurrezione e al dono dello Spirito. Assumere questa logica gesuana e pasquale è indispensabile per comprendere come la realtà storica e creata viene interrogata dalla rivelazione del mistero dell’amore di Dio. Di quel Dio che nella storia di Gesù si manifesta ― ogni volta e dentro ogni contraddizione ― più grande nell’amore e nella capacità di recuperare il male.
Entrambi i movimenti sono necessari, complementari: un movimento dal basso verso l’alto che può dialogare, con senso di ascolto e discernimento, con ogni istanza umana e storica, tenendo conto di tutto lo spessore dell’umano; e un movimento dall’altoverso il basso – dove “l’alto” è quello di Gesù innalzato sulla croce – che permette, nello stesso tempo, di discernere i segni del Regno di Dio nella storia e di comprendere in maniera profetica i segni dell’anti-Regno che sfigurano l’anima e la storia umana. È un metodo che permette ― in una dinamica costante ― di confrontarsi con ogni istanza umana e di cogliere quale luce cristiana illumini le pieghe della realtà e quali energie lo Spirito del Crocifisso Risorto sta suscitando, di volta in volta, qui ed ora.
Il modo di procedere dialogico è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli. Giungere là ― come “etnografi spirituali” dell’anima dei popoli, diciamo ― per poter dialogare in profondità e, se possibile, contribuire al loro sviluppo con l’annuncio del Vangelo del Regno di Dio, il cui frutto è la maturazione di una fraternità sempre più dilatata ed inclusiva.
Dialogo e annuncio del Vangelo che possono avvenire nei modi tratteggiati da Francesco d’Assisi nella Regola non bollata, proprio all’indomani del suo viaggio nell’oriente mediterraneo. Per Francesco c’è un primo modo in cui, semplicemente, si vive come cristiani: «Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (XVI: FF 43). Vi è poi un secondo modo in cui, sempre docili ai segni e all’azione del Signore Risorto e al suo Spirito di pace, si annuncia la fede cristiana come manifestazione in Gesù dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Mi colpisce tanto quel consiglio di Francesco ai frati: “Predicate il Vangelo; se fosse necessario anche con le parole”. È la testimonianza!
Questa docilità allo Spirito implica uno stile di vita e di annuncio senza spirito di conquista, senza volontà di proselitismo – questa è la peste! – e senza un intento aggressivo di confutazione. Una modalità che entra in dialogo “dal di dentro” con gli uomini e con le loro culture, le loro storie, le loro differenti tradizioni religiose; una modalità che, coerentemente con il Vangelo, comprende anche la testimonianza fino al sacrificio della vita, come dimostrano i luminosi esempi di Charles de Foucauld, dei monaci di Tibhirine, del vescovo di Oran Pierre Claverie e di tanti fratelli e sorelle che, con la grazia di Cristo, sono stati fedeli con mitezza e umiltà e sono morti con il nome di Gesù sulle labbra e la misericordia nel cuore. E qui penso alla nonviolenza come orizzonte e sapere sul mondo, alla quale la teologia deve guardare come proprio elemento costitutivo. Ci aiutano qui gli scritti e le prassi di Martin Luther King e Lanza del Vasto e di altri “artigiani” di pace. Ci aiuta e incoraggia la memoria del Beato Giustino Russolillo, che fu studente di questa Facoltà, e di Don Peppino Diana, il giovane parroco ucciso dalla camorra, che pure studiò qui. E qui vorrei menzionare una sindrome pericolosa, che è la “sindrome di Babele”. Noi pensiamo che la “sindrome di Babele” sia la confusione che si origina nel non capire quello che l’altro dice. Questo è il primo passo. Ma la vera “sindrome di Babele” è quella di non ascoltare quello che l’altro dice e di credere che io so quello che l’altro pensa e che l’altro dirà. Questa è la peste!
Esempi di dialogo per una teologia dell’accoglienza
“Dialogo” non è una formula magica, ma certamente la teologia viene aiutata nel suo rinnovarsi quando lo assume seriamente, quando esso è incoraggiato e favorito tra docenti e studenti, come pure con le altre forme del sapere e con le altre religioni, soprattutto l’Ebraismo e l’Islam. Gli studenti di teologia dovrebbero essere educati al dialogo con l’Ebraismo e con l’Islam per comprendere le radici comuni e le differenze delle nostre identità religiose, e contribuire così più efficacemente all’edificazione di una società che apprezza la diversità e favorisce il rispetto, la fratellanza e la convivenza pacifica.
Educare gli studenti in questo. Io ho studiato nel tempo della teologia decadente, della scolastica decadente, al tempo dei manuali. Fra noi si faceva uno scherzo, tutte le tesi teologiche si provavano con questo schema, un sillogismo: 1° Le cose sembrano essere così. 2° Il cattolicesimo ha sempre ragione. 3° Ergo… Cioè una teologia di tipo difensivo, apologetica, chiusa in un manuale. Noi scherzavamo così, ma erano le cose che a noi presentavano in quel tempo della scolastica decadente.
Cercare una convivenza pacifica dialogica. Con i musulmani siamo chiamati a dialogare per costruire il futuro delle nostre società e delle nostre città; siamo chiamati a considerarli partner per costruire una convivenza pacifica, anche quando si verificano episodi sconvolgenti ad opera di gruppi fanatici nemici del dialogo, come la tragedia della scorsa Pasqua nello Sri Lanka. Ieri il Cardinale di Colombo mi ha detto questo: “Dopo che ho fatto quello che dovevo fare, mi sono accorto che un gruppo di gente, cristiani, voleva andare al quartiere dei musulmani per ammazzarli. Ho invitato l’Imam con me, in macchina, e insieme siamo andati là per convincere i cristiani che noi siamo amici, che quelli sono estremisti, che non sono dei nostri”. Questo è un atteggiamento di vicinanza e di dialogo. Formare gli studenti al dialogo con gli ebrei implica educarli alla conoscenza della loro cultura, del loro modo di pensare, della loro lingua, per comprendere e vivere meglio la nostra relazione sul piano religioso. Nelle facoltà teologiche e nelle università ecclesiastiche sono da incoraggiare i corsi di lingua e cultura araba ed ebraica, e la conoscenza reciproca tra studenti cristiani, ebrei e musulmani.
Vorrei fare due esempi concreti di come il dialogo che caratterizza una teologia dell’accoglienza può essere applicato agli studi ecclesiastici. Anzitutto il dialogo può essere un metodo di studio, oltre che di insegnamento. Quando leggiamo un testo, dialoghiamo con esso e con il “mondo” di cui è espressione; e questo vale anche per i testi sacri, come la Bibbia, il Talmud e il Corano. Spesso, poi, interpretiamo un determinato testo in dialogo con altri della stessa epoca o di epoche diverse. I testi delle grandi tradizioni monoteiste in qualche caso sono il risultato di un dialogo. Si possono dare casi di testi che sono scritti per rispondere a domande su questioni importanti della vita poste da testi che li hanno preceduti. Anche questa è una forma di dialogo.
Il secondo esempio è che il dialogo si può compiere come ermeneutica teologica in un tempo e un luogo specifico. Nel nostro caso: il Mediterraneo all’inizio del terzo millennio. Non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte ― storico, geografico, umano ― tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo. Non dimenticare il padre comune.
Una teologia dell’accoglienza è una teologia dell’ascolto
Il dialogo come ermeneutica teologica presuppone e comporta l’ascolto consapevole. Ciò significa anche ascoltare la storia e il vissuto dei popoli che si affacciano sullo spazio mediterraneo per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità. Si tratta in particolare di cogliere il modo in cui le comunità cristiane e singole esistenze profetiche hanno saputo ― anche recentemente ― incarnare la fede cristiana in contesti talora di conflitto, di minoranza e di convivenza plurale con altre tradizioni religiose.
Tale ascolto dev’essere profondamente interno alle culture e ai popoli anche per un altro motivo. Il Mediterraneo è proprio il mare del meticciato – se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo – un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Nondimeno vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza.
La realtà multiculturale e pluri-religiosa del nuovo Mediterraneo si forma con tali narrazioni, nel dialogo che nasce dall’ascolto delle persone e dei testi delle grandi religioni monoteiste, e soprattutto nell’ascolto dei giovani. Penso agli studenti delle nostre facoltà di teologia, a quelli delle università “laiche” o di altre ispirazioni religiose. «Quando la Chiesa ― e, possiamo aggiungere, la teologia ― abbandona gli schemi rigidi e si apre ad un ascolto disponibile e attento dei giovani, questa empatia la arricchisce, perché “consente ai giovani di donare alla comunità il proprio apporto, aiutandola a cogliere sensibilità nuove e a porsi domande inedite”» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 65). A cogliere sensibilità nuove: questa è la sfida.
L’approfondimento del kerygma si fa con l’esperienza del dialogo che nasce dall’ascolto e che genera comunione. Gesù stesso ha annunciato il regno di Dio dialogando con ogni tipo e categoria di persone del Giudaismo del suo tempo: con gli scribi, i farisei, i dottori della legge, i pubblicani, i dotti, i semplici, i peccatori. A una donna samaritana Egli rivelò, nell’ascolto e nel dialogo, il dono di Dio e la sua stessa identità: le aprì il mistero della sua comunione con il Padre e della sovrabbondante pienezza che da questa comunione scaturisce. Il suo divino ascolto del cuore umano apre questo cuore ad accogliere a sua volta la pienezza dell’Amore e la gioia della vita. Non si perde niente con il dialogare. Sempre si guadagna. Nel monologo tutti perdiamo, tutti.
Una teologia interdisciplinare
Una teologia dell’accoglienza che, come metodo interpretativo della realtà, adotta il discernimento e il dialogo sincero necessita di teologi che sappiano lavorare insieme e in forma interdisciplinare, superando l’individualismo nel lavoro intellettuale. Abbiamo bisogno di teologi – uomini e donne, presbiteri, laici e religiosi – che, in un radicamento storico ed ecclesiale e, al tempo stesso, aperti alle inesauribili novità dello Spirito, sappiano sfuggire alle logiche autoreferenziali, competitive e, di fatto, accecanti che spesso esistono anche nelle nostre istituzioni accademiche e nascoste, tante volte, tra le scuole teologiche.
In questo cammino continuo di uscita da sé e di incontro con l’altro, è importante che i teologi siano uomini e donne di compassione – sottolineo questo: che siano uomini e donne di compassione –, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo “mare comune”. Senza comunione e senza compassione, costantemente alimentate dalla preghiera – questo è importante: si può fare teologia soltanto “in ginocchio” –, la teologia non solo perde l’anima, ma perde l’intelligenza e la capacità di interpretare cristianamente la realtà. Senza compassione, attinta dal Cuore di Cristo, i teologi rischiano di essere inghiottiti nella condizione del privilegio di chi si colloca prudentemente fuori dal mondo e non condivide nulla di rischioso con la maggioranza dell’umanità. La teologia di laboratorio, la teologia pura e “distillata”, distillata come l’acqua, l’acqua distillata, che non sa di niente.
Vorrei fare un esempio di come l’interdisciplinarità che interpreta la storia può essere un approfondimento del kerygma e, se animata dalla misericordia, può essere aperta alla transdisciplinarità. Mi riferisco in particolare a tutti gli atteggiamenti aggressivi e guerreschi che hanno segnato il modo di abitare lo spazio mediterraneo di popoli che si dicevano cristiani. Qui vanno annoverati sia gli atteggiamenti e le prassi coloniali che tanto hanno plasmato l’immaginario e le politiche di tali popoli, sia le giustificazioni di ogni genere di guerre, sia tutte le persecuzioni compiute in nome di una religione o di una pretesa purezza razziale o dottrinale. Queste persecuzioni anche noi le abbiamo fatte. Ricordo, nella Chanson de Roland, dopo aver vinto la battaglia, i musulmani erano messi in fila, tutti, davanti alla vasca del battesimo, alla pila battesimale. C’era uno con la spada, lì. E li facevano scegliere: o ti battezzi o ciao! Te ne vai dall’altra parte. O il battesimo o la morte. Noi abbiamo fatto questo. Rispetto a questa complessa e dolorosa storia, il metodo del dialogo e dell’ascolto, guidato dal criterio evangelico della misericordia, può arricchire molto la conoscenza e la rilettura interdisciplinare, facendo emergere anche, per contrasto, le profezie di pace che lo Spirito non ha mai mancato di suscitare.
L’interdisciplinarità come criterio per il rinnovamento della teologia e degli studi ecclesiastici comporta l’impegno di rivisitare e reinterrogare continuamente la tradizione.
Rivisitare la tradizione! E reinterrogare. Infatti, l’ascolto come teologi cristiani non avviene a partire dal nulla, ma da un patrimonio teologico che ― proprio dentro lo spazio mediterraneo ― affonda le radici nelle comunità del Nuovo Testamento, nella ricca riflessione dei Padri e in molteplici generazioni di pensatori e testimoni. È quella tradizione vivente giunta fino a noi che può contribuire a illuminare e decifrare molte questioni contemporanee. A patto però che sia riletta con una sincera volontà di purificazione della memoria, ossia sapendo discernere quanto è stato veicolo dell’intenzione originaria di Dio, rivelata nello Spirito di Gesù Cristo, e quanto invece è stato infedele a tale intenzione misericordiosa e salvifica. Non dimentichiamo che la tradizione è una radice che ci dà vita: ci trasmette la vita perché noi possiamo crescere e fiorire, fruttificare. Tante volte pensiamo alla tradizione come ad un museo. No! La settimana scorsa, o l’altra, ho letto una citazione di Gustav Mahler che diceva: “La tradizione è la garanzia del futuro, non la custode delle ceneri”. È bello! Viviamo la tradizione come un albero che vive, cresce. Già nel secolo quinto Vincenzo di Lérins lo aveva capito bene: la crescita della fede, della tradizione, con questi tre criteri: annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. È la tradizione! Ma senza tradizione tu non puoi crescere! La tradizione per crescere, come la radice per l’albero.
Una teologia in rete
La teologia dopo Veritatis gaudium è una teologia in rete e, nel contesto del Mediterraneo, in solidarietà con tutti i “naufraghi” della storia. Nel compito teologico che ci attende ricordiamo
San Paolo e il cammino del cristianesimo delle origini che collega l’oriente con l’occidente. Qui, molto vicino a dove Paolo sbarcò, non si può non ricordare che i viaggi dell’Apostolo furono segnati da evidenti criticità, come nel naufragio al centro del Mediterraneo (At 27,9ss). Naufragio che fa pensare a quello di Giona. Ma Paolo non fugge, e può anzi pensare che Roma sia la sua Ninive. Può pensare di correggere l’atteggiamento disfattista di Giona riscattando la sua fuga. Ora che il cristianesimo occidentale ha imparato da molti errori e criticità del passato, può ritornare alle sue fonti sperando di poter testimoniare la Buona Notizia ai popoli dell’oriente e dell’occidente, del nord e del sud. La teologia ― tenendo la mente e il cuore fissi sul «Dio misericordioso e pietoso» (cfr Gn 4,2) ― può aiutare la Chiesa e la società civile a riprendere la strada in compagnia di tanti naufraghi, incoraggiando le popolazioni del Mediterraneo a rifiutare ogni tentazione di riconquista e di chiusura identitaria. Ambedue nascono, si alimentano e crescono dalla paura. La teologia non si può fare in un ambiente di paura.
Il lavoro delle facoltà teologiche e delle università ecclesiastiche contribuisce all’edificazione di una società giusta e fraterna, in cui la cura del creato e la costruzione della pace sono il risultato della collaborazione tra istituzioni civili, ecclesiali e interreligiose. Si tratta prima di tutto di un lavoro nella “rete evangelica”, cioè in comunione con lo Spirito di Gesù che è Spirito di pace, Spirito di amore all’opera nella creazione e nel cuore degli uomini e delle donne di buona volontà di ogni razza, cultura e religione. Come il linguaggio usato da Gesù per parlare del Regno di Dio, così, analogamente, l’interdisciplinarità e il fare rete vogliono favorire il discernimento della presenza dello Spirito del Risorto nella realtà. A partire dalla comprensione della Parola di Dio nel suo contesto mediterraneo originario è possibile discernere i segni dei tempi in contesti nuovi.
La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo
Ho sottolineato tanto Veritatis gaudium. Vorrei ringraziare pubblicamente qui, perché è presente, mons. Zani, che è stato uno degli artefici di questo documento. Grazie! Qual è dunque il compito della teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo? Al dunque, qual è il compito? Essa deve sintonizzarsi con lo Spirito di Gesù Risorto, con la sua libertà di andare per il mondo e di raggiungere le periferie, anche quelle del pensiero. Ai teologi spetta il compito di favorire sempre nuovamente l’incontro delle culture con le fonti della Rivelazione e della Tradizione. Le antiche architetture del pensiero, le grandi sintesi teologiche del passato sono miniere di sapienza teologica, ma esse non si possono applicare meccanicamente alle questioni attuali. Si tratta di farne tesoro per cercare nuove vie. Grazie a Dio, le fonti prime della teologia, cioè la Parola di Dio e lo Spirito Santo, sono inesauribili e sempre feconde; perciò si può e si deve lavorare nella direzione di una “Pentecoste teologica”, che permetta alle donne e agli uomini del nostro tempo di ascoltare “nella propria lingua” una riflessione cristiana che risponda alla loro ricerca di senso e di vita piena. Perché ciò avvenga sono indispensabili alcuni presupposti.
Innanzitutto, occorre partire dal Vangelo della misericordia, cioè dall’annuncio fatto da
Gesù stesso e dai contesti originari dell’evangelizzazione. La teologia nasce in mezzo agli esseri umani concreti, incontrati con lo sguardo e il cuore di Dio, che va in cerca di loro con amore misericordioso. Anche fare teologia è un atto di misericordia. Vorrei ripetere qui, da questa città dove non ci sono solo episodi di violenza, ma che conserva tante tradizioni e tanti esempi di santità ― oltre a un capolavoro di Caravaggio sulle opere di misericordia e la testimonianza del santo medico Giuseppe Moscati ― vorrei ripetere quanto ho scritto alla Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica Argentina: «Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini. La teologia sia espressione di una Chiesa che è “ospedale da campo”, che vive la sua missione di salvezza e di guarigione nel mondo! La misericordia non è solo un atteggiamento pastorale, ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù. Vi incoraggio a studiare come, nelle varie discipline ― la dogmatica, la morale, la spiritualità, il diritto e così via ― possa riflettersi la centralità della misericordia. Senza misericordia, la nostra teologia, il nostro diritto, la nostra pastorale, corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nella ideologia, che di sua natura vuole addomesticare il mistero».1 La teologia, per la via della misericordia, si difende dall’addomesticare il mistero.
In secondo luogo, è necessaria una seria assunzione della storia in seno alla teologia, come spazio aperto all’incontro con il Signore. «La capacità di intravvedere la presenza di Cristo e il cammino della Chiesa nella storia ci rendono umili, e ci tolgono dalla tentazione di rifugiarci nel passato per evitare il presente. E questa è stata l’esperienza di tanti studiosi, che hanno incominciato, non dico atei, ma un po’ agnostici, e hanno trovato Cristo. Perché la storia non si poteva capire senza questa forza».2
È necessaria la libertà teologica. Senza la possibilità di sperimentare strade nuove non si crea nulla di nuovo, e non si lascia spazio alla novità dello Spirito del Risorto: «A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 40). Questo significa anche una adeguata revisione della ratio studiorum. Sulla libertà di riflessione teologica io farei una distinzione. Fra gli studiosi, bisogna andare avanti con libertà; poi, in ultima istanza, sarà il magistero a dire qualcosa, ma non si può fare una teologia senza questa libertà. Ma nella predicazione al Popolo di Dio, per favore, non ferire la fede del Popolo di Dio con questioni disputate! Le questioni disputate restino soltanto fra i teologi. È il vostro compito. Ma al Popolo di Dio bisogna dare la sostanza che alimenti la fede e che non la relativizzi.
Infine, è indispensabile dotarsi di strutture leggere e flessibili, che manifestino la priorità data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans-disciplinare e in rete. Gli statuti, l’organizzazione interna, il metodo di insegnamento, l’ordinamento degli studi dovrebbero riflettere la fisionomia della Chiesa “in uscita”. Tutto deve essere orientato negli orari e nei modi a favorire il più possibile la partecipazione di coloro che desiderano studiare teologia: oltre ai seminaristi e ai religiosi, anche i laici e le donne sia laiche che religiose. In particolare, il contributo che le donne stanno dando e possono dare alla teologia è indispensabile e la loro partecipazione va quindi sostenuta, come fate in questa Facoltà, dove c’è buona partecipazione di donne come docenti e come studenti.
Questo posto bellissimo, sede della Facoltà teologica dedicata a San Luigi, di cui oggi ricorre la festa, sia simbolo di una bellezza da condividere, aperta a tutti. Sogno Facoltà teologiche dove si viva la convivialità delle differenze, dove si pratichi una teologia del dialogo e dell’accoglienza; dove si sperimenti il modello del poliedro del sapere teologico in luogo di una sfera statica e disincarnata. Dove la ricerca teologica sia in grado di promuovere un impegnativo ma avvincente processo di inculturazione.
Conclusione
I criteri del Proemio della Costituzione Apostolica Veritatis gaudium sono criteri evangelici. Il kerigma, il dialogo, il discernere, la collaborazione, la rete – io aggiungerei anche la parresia, che è stata citata come criterio, che è la capacità di essere al limite, insieme all’hypomoné, al tollerare, essere nel limite per andare avanti – sono elementi e criteri che traducono il modo con cui il Vangelo è stato vissuto e annunciato da Gesù e con cui può essere anche oggi trasmesso dai suoi discepoli.
La teologia dopo Veritatis gaudium è una teologia kerygmatica, una teologia del discernimento, della misericordia e dell’accoglienza, che si pone in dialogo con la società, le culture e le religioni per la costruzione della convivenza pacifica di persone e popoli. Il Mediterraneo è matrice storica, geografica e culturale dell’accoglienza kerygmatica praticata con il dialogo e con la misericordia. Di questa ricerca teologica Napoli è esempio e laboratorio speciale. Buon lavoro!
Bollettino Sala Stampa della Santa Sede
N. 0532
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