Papa Francesco: l’invidia rende amara la vita
di Barbara Castelli
“Chiediamo occhi” che sappiano scorgere nella Chiesa “fratelli e sorelle, un cuore che sappia accogliere gli altri con l’amore tenero che Gesù ha per noi. E chiediamo la forza di pregare per chi non la pensa come noi: pregare e amare, non sparlare, magari alle spalle”. Così Papa Francesco prima dell’Angelus, nella Solennità dei santi Pietro e Paolo, apostoli patroni dell’alma Città di Roma.
L’invidia avvelena le comunità
Proprio a queste due icone della fede, sovente ritratte “mentre si stringono a vicenda in un abbraccio”, il Pontefice dedica alcune riflessioni. Anzitutto, erano due uomini “molto diversi”: “un pescatore e un fariseo con esperienze di vita, caratteri, modi di fare e sensibilità alquanto differenti”. “Non mancarono tra loro opinioni contrastanti e dibattiti franchi”, rimarca, ma “quello che li univa era infinitamente più grande: Gesù era il Signore di entrambi”.
Fa bene apprezzare le qualità altrui, riconoscere i doni degli altri senza malignità e senza invidie. L’invidia! L’invidia provoca amarezza dentro, è aceto sul cuore. Gli invidiosi hanno uno sguardo amaro. Tante volte, quando uno trova un invidioso, viene voglia di domandare: ma con che ha fatto colazione oggi, col caffellatte o con l’aceto?! Perché l’invidia è amara. Rende amara la vita. Quant’è bello invece sapere che ci apparteniamo a vicenda, perché condividiamo la stessa fede, lo stesso amore, la stessa speranza, lo stesso Signore. Ci apparteniamo gli uni gli altri: e questo è lo splendido di dire: la nostra Chiesa! Fratellanza.
La tenerezza edifica la Chiesa
Altre volte, invece, i due apostoli sono “raffigurati mentre sorreggono l’edificio della Chiesa”. Nel Vangelo odierno Gesù dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18), e Papa Bergoglio si sofferma, in particolare, sull’aggettivo “mia”. “Gesù non parla della Chiesa come di una realtà esterna – spiega il Pontefice – ma esprime il grande amore che nutre per lei”: “per il Signore noi non siamo un gruppo di credenti o un’organizzazione religiosa, siamo la sua sposa”, “nonostante i nostri errori e tradimenti”.
Come quel giorno a Pietro, oggi dice a tutti noi: “mia Chiesa, voi siete mia Chiesa”. E possiamo ripeterlo anche noi: mia Chiesa. Non lo diciamo con un senso di appartenenza esclusivo, ma con un amore inclusivo. Non per differenziarci dagli altri, ma per imparare la bellezza di stare con gli altri, perché Gesù ci vuole uniti e aperti. La Chiesa, infatti, non è “mia” perché risponde al mio io, alle mie voglie, ma perché io vi riversi il mio affetto. VATICAN NEWS
Barbara Castelli
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