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Quando la Chiesa ha chiesto perdono, da Paolo VI a Papa Francesco

Implorare il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli

di Antonio Tarallo
Credit Foto - Ansa - MAURIZIO BRAMBATTI

“Poiché è un misero peccatore che Ti parla, o Dio misericordioso, egli Ti domanda pietà per i suoi fratelli peccatori; e tutti coloro i quali, pentiti, varcheranno le soglie di questo luogo, abbiano da te o Signore, che vedi i loro tormenti, il perdono delle colpe commesse”. Così San Francesco, nel 1216. E’ l’inizio della Perdonanza di Assisi, ottenuta dal Serafico Padre, da papa Onorio III. La festa fu stabilita per il giorno 2 agosto. Da allora, ancora oggi, si perpetua un sì tale mistero.



Perdonare. Umanamente, forse, non c’è cosa più difficile. Come, d’altronde, chiedere perdono. Francesco, chiedeva a Dio, di perdonare l’Umanità peccatrice. Peccatrice come ieri, così oggi. Per-donare. Donare, per: è dono, dunque, ed è gratuito. Forse, per questo motivo, non è per nulla facile. In quell’atto, il Poverello di Assisi, cercava nella Misericordia infinita di Dio, quello che solo in Lui è possibile, realmente: il perdono pieno, appunto.



E, ora, facciamo un bel salto temporale. Cambiamo i “personaggi” della storia, o meglio, della Storia. L’oggetto in questione è sempre il “perdono”, ma espresso e chiesto, in altra misura. Se Francesco nel 1216 chiedeva a Dio questo “dono”, la Chiesa nei secoli avanti, sarà protagonista di altra “tipologia” di perdono, di diverso genere, ed espresso in altra maniera. Quelli che indaghiamo, oggi, sono momenti importanti della Storia della Chiesa. Segmenti del libro – sempre aperto – dell’istituzione che fa capo al successore di Pietro. Il tema, però è sempre quello, la richiesta di perdono.



2 settembre 1999. In maniera inaspettata, Papa Giovanni Paolo II, annuncia che in vista del Grande Giubileo dell’Anno 2000, è sua ferma intenzione di chiedere perdono per gli errori della Chiesa, del passato, includendo tra questi la latitanza in difesa dei diritti umani, la compiacenza al totalitarismo e l’inquisizione. Nasce così uno studio sul tema "La Chiesa e le colpe del passato", proposto alla Commissione Teologica Internazionale da parte del suo Presidente, il cardinale Ratzinger, il futuro Benedetto XVI. Nel documento della Commissione si legge:


“Come successore di Pietro, chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli. I cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse. (…) Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell''amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori”
.



L’inginocchiarsi “davanti a Dio”, l’implorare “il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli”, davvero richiama alla memoria quel San Francesco della Porziuncola.

Una delle immagini più forti, più indelebili del pontificato di Karol Wojtyla, rimane – senza dubbio – quella di un pontefice già stanco, affaticato, davanti al muro del pianto in Gerusalemme, con quella lettera in cui vi era scritta la richiesta di perdono ai nostri cugini ebrei. Era il 26 marzo 2000.



Seppur quelle immagini sono, ormai, divenute “emblema” della Chiesa che chiede perdono, bisogna pur ricordare che dietro queste stesse immagini, vi è un retroterra storico di non poco conto. Nella Storia della Chiesa, infatti, bisognerà attendere Paolo VI per vedere un Papa esprimere una domanda di perdono. E’ rivolta a Dio, e ai “fratelli” contemporanei della Chiesa d’Oriente. Nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio, infatti, il Papa domanderà “perdono a Dio [...] e ai fratelli separati” d'Oriente. Nell'ottica di Paolo VI la domanda e l'offerta di perdono riguardavano unicamente il peccato della divisione tra i cristiani,  e supponevano la reciprocità. 



Poi venne l’epoca Wojtyla. E l’orizzonte si aprì ad altre strade. E’ il 1985, quando Giovanni Paolo II, durante il suo viaggio in Africa, chiede perdono per lo schiavismo che distrusse la vita di decine di migliaia di persone, praticato da nazioni cristiane e favorito da cristiani. Nel 1991, con frasi che gli guadagnarono l'affetto di molti ebrei, chiede senza mezzi termini “perdono per la passività di fronte alle persecuzioni e all'Olocausto degli ebrei”. Il 1992 è la volta dell’America latina: Giovanni Paolo II, a nome della Chiesa, fa un mea culpa per le sofferenze enormi arrecate a quel continente dalla colonizzazione.



Nel '95, con una memorabile “Lettera alle donne”, condanna il fatto che anche la Chiesa sia stata “purtroppo erede di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna. Se in questo non sono mancate - scrive - specie in determinati contesti, responsabilità oggettive anche in non pochi figli della Chiesa, me ne dispiaccio sinceramente”.



La “lista delle richieste di perdono”, non è per nulla breve. Paolo VI è colui che ha “aperto” la strada a simili pagine di Storia. Giovanni Paolo II ha raccolto tale eredità, ampliando il raggio di azione e lo ha fatto – da ottimo comunicatore, come sempre – compiendo gesti importanti davanti l’opinione pubblica: culmine di tutto, il Giubileo del 2000. Benedetto XVI e l’attuale pontefice Francesco, hanno continuato su questa strada.  Il viaggio di Ratzinger in Polonia, ad Auschwitz, nel maggio 2006. Fino ad arrivare allo “scalpore” della richiesta di perdono di papa Bergoglio, per i casi di pedofilia all’interno della Chiesa. Davanti a sei vittime di abusi di sacerdoti – tre uomini e tre donne adulti provenienti da Gran Bretagna, Germania e Irlanda dirà il 7 luglio 2014, durante l’omelia a Santa Marta: “Chiedo perdono per gli abusi del clero. (…) Davanti a Dio e al suo popolo. (…) Sono profondamente addolorato per i peccati, i gravi crimini di abuso sessuale commessi da membri del clero nei vostri confronti, e umilmente chiedo perdono. Chiedo perdono anche per i peccati di omissione da parte dei capi della Chiesa”.



Antonio Tarallo

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