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Quaresima, l'elemosina del cuore

di Antonio Tarallo
Credit Foto - farodiroma.it

Fare elemosina per uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare tutto per noi stessi, nell’illusione di assicurarci un futuro che non ci appartiene. E così ritrovare la gioia del progetto che Dio ha messo nella creazione e nel nostro cuore, quello di amare Lui, i nostri fratelli e il mondo intero, e trovare in questo amore, la vera felicità”. (Dal messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2019)

Dal greco, “eleēmosýnē”, derivato dal verbo “eleéō”, che vuol dire “avere pietà”. E’ davvero significativo andare a scovare l’etimologia della parola “elemosina” perché, forse, potrebbe darci lo spunto per poter meglio entrare nel suo vero e profondo significato. Con sorpresa, notiamo subito che non c’è nessun legame con quello che comunemente intendiamo noi, e cioè un “qualcosa” che ha a che fare con il denaro.

Quando parliamo del “fare elemosina” subito compare nella nostra mente figurativa, una mano tesa, o – nei casi, come dire, più “romantici”, un cappello appoggiato sulla terra – e dentro, qualche moneta d’argento. Ma è solo questo il “fare elemosina”? O è altro?

Papa Francesco, nel messaggio di Quaresima, fa riferimento, all’accumulo di “tutto per noi stessi”. Naturalmente, in questo caso, si intende bene che stia parlando del denaro. Il Tempo che stiamo vivendo ci pone davanti a dati sconcertanti: sono 902 milioni, le persone a vivere in condizione di povertà estrema. Se ci pensiamo bene, quindici volte la popolazione del nostro paese.

E, al giorno d’oggi, secondo i dati del “World food programme”, sono ben 795 milioni le persone che soffrono la fame. E – bisogna precisare – il sostantivo “soffrire” non è stato scelto a caso, bensì per rendere meglio la reale condizione in cui verte questa considerevole “porzione” dell’Umanità.

Numeri che pongono al Mondo intero una questione su cui, più volte, lo stesso pontefice, si è voluto soffermare: è necessaria una più equa distribuzione della ricchezza. Non c’è altra soluzione. Sarebbe necessario che molti governi meditassero, appunto, su quel “uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare tutto per noi stessi, nell’illusione di assicurarci un futuro che non ci appartiene”.

Ma c’è un altro punto che merita attenzione. Le parole che seguono l’invito a “fare elemosina”, ci offrono l’opportunità di andare “oltre”, ci aiutano a entrare meglio nel suo senso profondo: amare “i nostri fratelli e il mondo intero, e trovare in questo amore, la vera felicità”. E’ nell’amore, dunque, che risiede la vera elemosina. E, amare, vuol dire “uscire da sé”, non ci sono – forse – altri termini. Queste parole potrebbero sembrare – lo confessiamo pure – belle parole scritte, ma nulla più. Molte volte, invece, non ci accorgiamo che potrebbero essere incarnate in una realtà, poi, così non lontana da noi.

Una realtà che rappresentiamo – il più delle volte – nelle persone – sempre in numero maggiore, purtroppo – che chiedono l’elemosina, quelle che intrecciamo durante la nostra quotidianità, sulle strade, sulle piazze, all’angolo di una chiesa. In questo caso, ci troviamo di fronte a persone bisognose di quei beni definiti “primari”: cibo e vestiti.

Ma c’è anche un altro bisogno attorno a noi, e anche questo sempre maggiore, ma più celato. Un “quid” che – di solito – non viene chiesto espressamente, ma è nel cuore di molte persone che incontriamo: bisogno di attenzione, di rispetto, di dialogo, anche in un semplice sorriso. Società frenetica, la nostra.

Legata, il più delle volte, a un senso utilitaristico delle cose e delle persone, la società del consumo. Non c’è mai tempo per porre attenzione all’altro, ingabbiati tutti – chi più, chi meno – nel nostro “io”, chiusi nel “nostro personale mondo” che non vogliamo abbandonare, attaccati a questo, come ostriche allo scoglio.

Non ci accorgiamo, molte volte, che basterebbe davvero poco per alleviare le preoccupazioni, le sofferenze di chi – magari – neanche conosciamo, e potremmo farlo – senza poi così grande sforzo – con una parola gentile, con un’attenzione verso la sua persona, a cominciare, ad esempio, col cedere il nostro posto in un mezzo pubblico, o aiutare – con semplicità – chi è in difficoltà.

Non gesti eroici, ma semplicemente “gentilezza del cuore”. E, non forse, anche questo, potrebbe definirsi “elemosina”, “avere pietà”?


Antonio Tarallo

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