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Alessandro Manzoni e Fra Cristoforo

Volto francescano del capolavoro letterario

di Antonio Tarallo

150 anni, cifra importante. “150 anni”, e nel pronunciare tali cifre risuona la matematica dei numeri in maniera più armonica, più dolce. Sono 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, poeta e scrittore celebrato in questi giorni in tutta Italia. Se pensiamo a questo cognome così altisonante la mente viaggia subito a “I promessi sposi”, immancabile testo di scuola su cui ogni studente si è confrontato: temi, schemi di capitoli, riassunti e interrogazioni. E’ ampio il ventaglio di ricordi. Manzoni e il famoso componimento poetico dedicato all’imperatore Napoleone, “Il cinque maggio”, con quell’incipit così forte e deciso: “Ei fu. Siccome immobile,/ dato il mortal sospiro”; e poi segue con musicalità di versi con “stette la spoglia immemore/ orba di tanto spiro”. “I Promessi sposi”, libro-cult di generazioni di studenti. E così sarà in eterno. Sulle pagine manzoniane tanto è stato scritto e tanto sarà ancora analizzato: personaggi; luoghi; sentimenti; temi e situazioni. In sintesi: una “vivisezione” a cui ogni grande capolavoro è di solito sottoposto; un’analisi approfondita che, molto spesso, però - a onor del vero - toglie molta poeticità alle parole che gli autori dei cosiddetti classici hanno scritto. Possibile analizzare la bellezza di un fiore?Un fiore è bello e basta.

Ma, è inevitabile: quando si parla di capolavori, non si può non incorrere nel “peccato” di analisi. Fra Cristoforo, volto francescano del capolavoro manzoniano: è uno dei frati cappuccini del convento di Pescarenico; padre confessore di Lucia e impegnato ad aiutare i due promessi giovani contro i soprusi del potente don Rodrigo. Fra Cristoforo, uomo di circa sessant'anni, con una lunga barba bianca; uomo sommesso anche se - alcune volte - sembra riecheggiare in lui il passato, il suo, quello del “prima di prendere i voti”. Fra Cristoforo viene introdotto nel terzo capitolo: Lucia gli racconta in confessione le molestie subite da parte di don Rodrigo.

Ma, forse, il quarto capitolo, ci offre lo spunto per riflettere maggiormente su questo frate francescano: attraverso un lungo flashback, le pagine di questo capitolo, raccontano la vita precedente del frate e le circostanze che lo hanno indotto a farsi religioso. Il passato e il presente, la storia passata contrapposta all’oggi fatto di preghiere e di carità. Ma qual era la vita di Cristoforo prima di divenire frate? Prima di tutto, il nome: prima di emettere i voti, si chiamava Lodovico ed era figlio di un ricco mercante - ritiratosi dagli affari - che viveva come un nobile e aveva educato il figlio ai modi signorili. Un mercante, dei soldi, e dei nobili modi. Sembra rivedere un altro giovane, vissuto in altra epoca: San Francesco d’Assisi. In letteratura si sa bene che gli echi e i rimandi sono “all’ordine del giorno”. Il giovane Lodovico, non accettato dagli aristocratici della sua città, era in cattivi rapporti con loro e a poco a poco era divenuto difensore di deboli e oppressi: vicino ai bisognosi. Ma il suo essere vicino agli oppressi era determinato da un agire non propriamente cristiano: Lodovico, infatti, si circondava di sgherri; e con questi personaggi compiva violenze contro gli oppressori. E proprio a seguito di un sanguinante duello con un avversario, Lodovico sarà portato dalla folla in un convento di cappuccini per salvarlo dalla giustizia e dalla vendetta dei parenti dell'assassinato. In questo convento avverrà la conversione: Lodovico diviene Fra Cristoforo. Nel suo nome ha scelto tutta la sua missione: etimologicamente, Cristoforo sta per “portatore di Cristo”.

Piccola nota, assai curiosa: nella prima stesura del capolavoro - aveva titolo “Fermo e Lucia” - l’autore milanese faceva ben più dettagliato riferimento a un frate realmente esistito. E’ Fra Cristoforo Picenardi, padre cappuccino originario di Cremona e vissuto agli inizi del XVII secolo, dalla giovinezza alquanto turbolenta (come il Lodovico manzoniano) e che prestò la sua opera di assistenza ai malati nel lazzaretto di Milano, dove morì anch'egli di peste. Ma questa, è un’altra storia. Tutta da raccontare.


Antonio Tarallo

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