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Il Natale della periferia romana: incontrare l'altro per non averne paura

Il messaggio di don Marco, parroco di Torre Angela: non chiudiamoci nell'odio

di Irene Roberti Vittory

Torre Angela, periferia di Roma est. Uno di quelli di cui si sente parlare spesso, sempre in un certo modo. C’è un cartello che avvisa che si sta entrando nel quartiere, come se si entrasse in un’altra città, come se Roma improvvisamente scomparisse. Ed effettivamente Roma scompare. Perché palazzi alti, condomini, grandi viali, qui, non ce ne sono. A partire dal dopoguerra, gli abitanti hanno messo in piedi una borgata dove le case sono basse, tre-quattro piani al massimo. “Io di Torre Angela conoscevo soltanto il ponticello sulla Casilina, che vedevo quando andavo a Borghesiana, un’altra ‘isola’ nel verde di Roma. E sì, ti costringe a cambiare lo sguardo, a guardare in basso”. A parlare è don Marco Simeone, da poco più di tre anni parroco della chiesa dei Santi Simone e Giuda Taddeo. Da questa parrocchia è passato anche Matteo Zuppi, ora vescovo. “Se ci fai caso, nonostante i tanti supermercati che stanno aprendo intorno, in queste strade continuano a esserci tanti negozi - racconta don Marco - non si va tutti al centro commerciale a comprare quello che serve. Perché Torre Angela è come un paese, ha ancora questa forma di vita sociale. Ci si conosce tutti, si condivide qualcosa”. Tutto questo nonostante le emergenze - per fronteggiare le quali non ci sono mai sufficienti risorse - e i disagi, che pure esistono e ciclicamente si manifestano. Eppure, testimonia don Marco, “c’è un tempio buddista-cinese a due passi, nascosto fra i capannoni ma c’è; ci sono induisti, musulmani, cattolici, protestanti. Torre Angela, mi disse una volta un pizzettaio, è la Manhattan di Roma, perché ci vedi tutto il mondo, ed è così”. E poi “c’è voglia di casa, di normalità”, anche se quotidianamente si fanno i conti con i servizi che mancano.

La parrocchia di San Simone e San Giuda Taddeo, oltre ad aver conosciuto quattro parroci in undici anni, ha una struttura particolare: c’è un “centro” e ci sono tre “zone”, ognuna con messa domenicale, catechismo per i bambini, gruppi. “È come se fossero 4 unità pastorali, ciascuna con una certa autonomia. Proprio la sua flessibilità ha permesso alla comunità di non perdersi, di ritrovarsi sempre e ripartire con nuove cose da fare. Il calo di fedeli c’è stato negli anni della crisi, anche perché nel frattempo è cambiato il mondo intorno a noi e il modo di comunicare. Nel mondo virtuale non c’è relazione o reale condivisione, è un mondo di isolamento e paura dell’incontro con l’altro. Andare a messa invece significa proprio stare fisicamente accanto all’altro”.

Ecco allora il messaggio che don Marco fa arrivare, per Natale, da Torre Angela e dal suo cuore di “paese”: “Io qui imparo la complessità delle relazioni. Senza questa rete di relazioni l’essere umano non funziona. È oneroso gestirla perché significa affrontare felicità, rabbia, dolore, tutto, ma d’altra parte noi siamo fatti per questo. La nostra vita rischia di essere senza significato perché non abbiamo intorno persone verso le quali sentiamo di avere una relazione significativa. Invece ognuno può dare qualcosa a qualcuno e ricevere dagli altri. Dobbiamo avere il coraggio di guardare il Vangelo e ricordare che non siamo fatti per chiuderci e odiare”.


Irene Roberti Vittory

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