RUBRICHE >

...Nel crudo sasso intra Tevero e Arno …

Le Stimmate sono la sintesi di una serie di casi esemplari diretti ai frati come modelli da imitare.

Parlare alla terra, parlare alle creature, parlare alle famiglie, parlare al papa e ai cardinali, parlare ai frati, pregare Dio. Passato il Natale nella chiesa di Assisi, con i frati che cantano a squarciagola e i fedeli che guardano estasiati Francesco abbracciare silenzioso un bambinello, le storie successive sono un crescendo di parole e di silenzi. Le parole sono invocazione, giubilo, conversazione, argomento, inno, i silenzi sono preghiera; fanno sgorgare una sorgente dalle rocce, attirano l’attenzione degli uccelli, intrattengono gli ospiti di una casa, suscitano l’ammirazione dei dotti, esortano alla preghiera i confratelli, contemplano muti il Signore. Francesco le ha usate per cantare, accompagnate a una recita, coinvolte in una preghiera.

I frati di fine Duecento argomentano, discutono, convincono, ma la parola finale resta l’esempio di Francesco, il quale “nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarno” (Paradiso XI, 106-108).
All’episodio delle Stimmate è dedicato l’ultimo quadro della campata d’ingresso della Basilica Inferiore, che chiude una sequenza di cinque storie con prediche: le due nella parete di facciata e le tre nella prima campata: le Stimmate sono la sintesi di una serie di casi esemplari diretti ai frati come modelli da imitare. La scelta dell’ordinatore non sembri casuale: Francesco ha scalato il sasso della Verna per seguire integralmente la via di Cristo, che i Vangeli descrivono più volte evitare la folla per ritirarsi in preghiera in luoghi solitari. Lo spiega senza indugi la didascalia sotto il quadro: “Quando il beato Francesco pregava sulla costa del monte della Verna, vide Cristo sotto forma di un Serafino crocifisso, che gli impresse nelle mani, nei piedi e anche nel lato destro, le stimmate della Croce del nostro Signore Gesù Cristo”.

Pregare è parlare con Dio, pregare incessantemente, “sentirsi inondato con maggiore abbondanza dalla dolcezza della celeste contemplazione” (LegM XIII, 1), e poterlo fare in libertà avvalendosi del soccorso di un compagno – fra Leone – come prescrive la Regola di vita per gli eremi: “Quei due che fanno da madri seguano la vita di Marta, e i due figli seguano la vita di Maria”. Nel racconto di Bonaventura, Francesco aveva raggiunto l’eremo della Verna per compiere un digiuno di quaranta giorni in onore di san Michele arcangelo. Nel nome della SS.ma Trinità aveva chiesto al suo compagno di aprire tre volte a caso il Vangelo, cercando la sorte degli apostoli, e tutte e tre le volte la sorte cadde sulla pagina della passione. Avvicinandosi la festa della esaltazione della Croce, mentre pregava sul fianco del monte, Francesco “comprese che, come aveva imitato Cristo nelle azioni della sua vita, così doveva essere a lui conforme nelle sofferenze e nei dolori della passione”, e fu allora che vide un Serafino con sei ali che celavano l’effigie di un uomo crocifisso.

Scomparsa la visione, si stupì nel trovare come da quella intensa immedesimazione avesse ricevuto sulle mani e sui piedi i segni dei chiodi e sul fianco destro la ferita di una lancia, che lo avevano “trasformato nel ritratto visibile di Cristo crocifisso”. 
Nella versione di Giotto Francesco è quasi al centro del quadro, piega un ginocchio a terra, tiene le mani alzate all’altezza delle spalle e si volta a guardare un uomo nudo levato in alto e rivestito da ali di Serafino, dalle cui mani e dai cui piedi partono raggi luminosi che vanno a colpire le mani, i piedi e il fianco di Francesco. L’ambiente è un panorama roccioso dominato da un monte boscoso. Alle spalle di Francesco è una cappella al cui interno s’intravede un altare addobbato, sul lato opposto è una seconda chiesa alla cui porta siede a terra un frate intento alla lettura. Sul portale della prima è una lunetta ornata da una croce in rilievo, la seconda ha una croce sul timpano. Apparentemente le due croci si adeguano a un brano del Testamento di Francesco, dove il santo racconta di sé come ogni volta passasse accanto a una chiesa o la scorgesse a distanza, fosse solito recitare una preghiera:“Ti adoriamo Signore, per te e per tutte le chiese che sono nel mondo, e ti benediciamo perché con la tua santa croce hai redento il mondo”.

Questo quadro con le Stimmate significa più cose insieme: è raffigurazione di un episodio emblematico della vita di Francesco, destinato a diventare l’immagine ufficiale del miracolo delle Stimmate; è riproduzione realistica degli edifici religiosi del tempo; è la vita dei frati negli eremi. C’è poi un quarto significato, che ha assunto una importanza particolare per la storia dell’arte. Il museo del Louvre a Parigi conserva una tavola con le Stimmate di san Francesco che copia l’affresco di Assisi. La tavola viene dal San Francesco di Pisa e è firmata “Opus Jocti fiorentini”. Come osservò Pietro Toesca nel 1951, questo quadro “in cui tutte le composizioni riflettono con poche varianti gli affreschi di Assisi, [è la] inoppugnabile riprova che questi sono di Giotto”. Ma poiché le storie della vita di san Francesco furono dipinte da almeno tre differenti pittori, ne risulta che il quadro delle Stimmate, e gli altri a questo collegati, grazie al confronto con la tavola di Parigi possono essere convincentemente attribuiti al fiorentino Giotto di Bondone.

Commenti dei lettori



NON CI SONO COMMENTI PER QUESTO ARTICOLO

Lascia tu il primo commento

Lascia il tuo commento

Nome (richiesto):
Email (richiesta, non verrà mostrata ai visitatori):
Il tuo commento:
Organo ufficiale di Stampa della Basilica di San Francesco d'Assisi
Custodia Generale Sacro Convento
© 2014 - tutti i diritti riservati
Contatti | Credits